La democrazia è in crisi da tempo, il recente successo dei partiti populisti è uno degli effetti più lampanti, più che una causa di questo fenomeno. Pensare che la sconfitta di Trump alle elezioni statunitensi possa rappresentare un cambio di rotta in questo senso è indice di un atteggiamento miope e ingenuo. La crisi della democrazia occidentale, figlia di un lungo e lento processo storico e sociale iniziato nel corso degli anni Ottanta, non può essere liquidata a seconda dell’esito di un’elezione. Anche se l’elezione in questione è la più importante del mondo. Anche se a esser sconfitto è stato Donald Trump, probabilmente colui che più di tutti ha rotto le regole della democrazia. Non basterà Joe Biden a dare nuova legittimità a queste regole. Non basterà Joe Biden a salvare la democrazia, che vive una crisi profonda, evidente nella logica e nei rapporti umani ancor prima che nei risultati elettorali.
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Le regole fondamentali della democrazia
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Come ben dice Francesco Costa riguardo al concession speech di George H. W. Bush nel 1992:
La democrazia è fatta di un sacco di cose fondamentali che non sono scritte dentro nessuna legge. Si fanno finché le persone decidono di farle; esistono solo perché le persone decidono che debbano esistere.
Tra queste cose c’è quella, quando si perde, di concedere la vittoria delle elezioni all’avversario e accettare di collaborare attraverso il confronto democratico al governo di un Paese. Si è sempre fatto così: chi prende più voti governa, chi perde sta all’opposizione. Negli ultimi giorni è girato molto anche il video del concession speech di John McCain dopo la sconfitta contro Barack Obama alle elezioni del 2008. Un discorso che, se paragonato a quello di Trump censurato dalla CNN, sembra essere un vero e proprio modello di come funziona la democrazia. Trump secondo molti avrebbe dovuto dimostrare lo stesso atteggiamento collaborativo, concedere la vittoria a Joe Biden e augurargli ogni bene per la sua amministrazione. Il problema è che Trump – parafrasando un famoso film – non solo non si muove sullo stesso campo da gioco del suo avversario, ma non pratica nemmeno lo stesso sport.
La narrazione di Trump, i presunti brogli e la cheerleader Matteo
Già da prima che si votasse Donald Trump aveva lasciato intendere che non avrebbe concesso la vittoria in caso i voti per posta avessero sancito il successo di Joe Biden. Durante la notte elettorale e nel giorno seguente si è dichiarato vincitore delle elezioni, e ha costruito una narrazione sui presunti brogli dei democratici e sui voti “illegali” arrivati per posta.
I WON THIS ELECTION, BY A LOT!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) November 7, 2020
Le sue parole sono state rilanciate anche da Matteo Salvini in Italia, condotta che ha fatto meritare al leader della Lega anche una simpatica menzione da parte della stampa internazionale, che l’ha definito come una cheerleader di Trump. In buona sostanza, dunque, il Presidente statunintense ha spezzato una di quelle regole che tengono in piedi e fanno funzionare la democrazia. Nonostante abbia ottenuto un numero inferiore di grandi elettori rispetto a Biden non ha concesso la vittoria all’avversario. Al contrario ha costruito una narrazione intorno a presunti brogli e ha dimostrato di avere numerosi sostenitori in giro per il mondo. Oltre che naturalmente negli States, dove il Presidente uscente è stato votato da più di settanta milioni di persone.
È importante che Trump dica il falso?
Veniamo dunque al secondo punto del ragionamento. Se Trump ha rotto una delle regole fondamentali della democrazia, è importante che l’abbia fatto con cognizione di causa, cioè rafforzando la sua tesi con delle prove? Non è detto. Lo sarebbe se il Presidente degli Stati Uniti e i suoi sostenitori si muovessero all’interno di queste regole, che da anni abbiamo condiviso come esseri umani. Per affermare una verità, questa deve essere sostenuta da evidenze e fatti. La logica però non sembra più essere questa, almeno per una fetta consistente della popolazione.
Trump da anni costruisce una narrazione alternativa su democrazia, organi di stampa, cambiamento climatico, immigrazione. La definizione di fake news non è sufficiente a descrivere questa dinamica, è molto più accurata quella di “post-verità”, dichiarata non a caso parola dell’anno dal Guardian già nel 2016. Non si tratta semplicemente di dire bugie, di affermare il falso. Si tratta di costruire narrazioni alternative alle quali molte persone decidono di credere e sulle quali scelgono di impostare i propri rapporti. Non siamo sul piano dei contenuti (fake news), ma su quello della logica, del metodo, dell’epistemologia (post-verità).
La costruzione della post-verità nei rapporti umani
Non è importante che questi brogli non sono avvenuti, o che il cambiamento climatico sia un fenomeno catastrofico in atto da anni e che il Covid-19 non sia solo un’influenza. Molte persone sono convinte del contrario e non basta un’elezione persa per cambiare questo modo di intendere la realtà. Trump è un’espressione – la più potente sul piano mediatico, sia chiaro – di un sistema di relazioni nuovo, di una logica che rischia di fare a pezzi l’altro insieme di rapporti, quello democratico, che ha governato il nostro modo di essere negli ultimi settant’anni.
Questo cambiamento di prospettiva è evidente anche nei rapporti umani. Le discussioni su questi temi sono difficili da sostenere, perché chi le affronta costruisce il proprio pensiero attraverso logiche e metodi diversi. Si genera il più delle volte un’incomprensione di fondo perché non esiste più un unico modo di formare le proprie convinzioni, un unico sistema di credenze e valori intorno al quale costruire un ragionamento. E questo metodo non tornerà solo perché Trump ha perso le elezioni.
Molti non stanno capendo ciò che ormai accade da anni
Trump è infatti un’antenna radio che raccoglie le frequenze diffuse negli Stati Uniti. Fa sorridere – ed è un sorriso amaro – l’ingenuità con cui molti leader nel mondo hanno accolto la sconfitta di Trump. Enrico Letta ad esempio nel corso di un’intervista pochi giorni dopo la notte elettorale ha sostenuto che «i sovranismi si sgonfieranno anche in Europa dopo la sconfitta di Trump». Non è vero. I rapporti umani, il modo in cui si apprende, il metodo attraverso cui si fa la conoscenza del mondo vanno ben oltre la sconfitta di uno dei massimi rappresentanti del nuovo populismo.
Fa sorridere anche leggere che alcuni politici italiani applaudano al fact checking dei giornalisti della CNN, che hanno interrotto il discorso di Trump in quanto il Presidente stava dicendo il falso. Si può essere d’accordo sul fatto che questo andasse fatto. Il compito del giornalista è quello di raccontare la verità e quindi di esporsi. Ma questo assunto andrebbe bene se ci muovessimo sul piano dei contenuti e non su quello del metodo. Oscurare non serve a nulla, se non a compiacere una parte del Paese e a nutrire maggiore indignazione in un’altra, che si farà ancor più forza accusando di corruzione la CNN che giustifica i brogli dei democratici in quanto collusa con essi.
Una crisi ben più profonda, che investe il metodo e non i contenuti
Non si tratta di fare un ragionamento sul fatto che sia giusto dare spazio alle falsità o meno. Se ci muovessimo tutti dentro lo stesso schema logico, potremmo ragionare sul dare spazio o meno a quello che Trump dice sul cambiamento climatico, sulla democrazia, sul coronavirus. Purtroppo non è così semplice, la crisi è ben più profonda e va oltre la dicotomia vero/falso. Interessa l’epistemiologia, l’apprendimento. Se è il Presidente degli Stati Uniti a essere il maggior rappresentante di questo nuovo populismo, è per forza un fatto di metodo e non solo di contenuti. Altrimenti verrebbe trattato semplicemente come uno che racconta balle.
Questo processo di cambiamento è in atto da molti anni, il discorso di Trump sui voti illegali ne è solo l’ultimo emblematico esempio. Continuare a riferirci a ciò che sta succedendo con gli schemi che ci hanno permesso di rapportarci come uomini fino a ora dimostra solo una prospettiva di vedute molto ristretta. Prima ce ne facciamo una ragione e prima capiamo come affrontare la questione. Non si tratta di chi vince o chi perde le elezioni. Si tratta di un sistema di valori che è in crisi, è la democrazia stessa a essere in crisi perché costantemente messa in dubbio da un sistema di credenze alternativo, un sistema di rapporti umani completamente opposto.
Forse è troppo tardi per cambiare lo stato delle cose
La crisi è complessa e quindi necessariamente anche la soluzione dovrà esserlo. Si tratta di mettere in discussione tutto ciò che è successo negli ultimi quarant’anni nelle democrazie occidentali. Il nostro rapporto con le istituzioni, il nostro atteggiamento nei confronti della conoscenza, il nostro modo di intendere la società e l’informazione. Soprattutto il nostro modo di rapportarci agli altri. Continuare solo a pensare di essere migliori e più intelligenti non è la soluzione per sanare una crisi che, per molti versi, sembra travolgerci in modo inesorabile, perché porta con sé un processo in atto ormai da molti anni. Sarà un processo lungo perché stiamo affrontando tardi questo problema, e forse nemmeno con coscienza. Non sarà (solo) Joe Biden a guarire una democrazia malata.