La squallida e inquietante vicenda che ha travolto il manager Alberto Genovese, tra i fondatori di Facile.it e di molte start up di successo, dimostra la pericolosità della mascolinità tossica e che la questione di genere non è mai stata scindibile da quella di classe. Il manager quarantatreenne è accusato di stupro verso una ragazza di diciotto anni, ma potrebbe aver commesso lo stesso reato, e altri, anche nei confronti di altre vittime. Le sue feste private, nella sua casa milanese, sarebbero finite spesso con pasticche sciolte a tradimento nei cocktail delle ragazze, per stordirle e portarle nella sua “stanza blindata”, dove avvenivano le violenze.
Violenze di una crudeltà inenarrabile, su cui non ci soffermeremo. I giornali stanno già sufficientemente cannibalizzando la questione, così come è difficile trovare un articolo che non si soffermi sul curriculum stellato di Genovese. Come se, per parlare dei reati gravissimi di cui è accusato, una dettagliata premessa sui suoi trascorsi professionali fosse d’obbligo. L’indagato viene definito in un articolo “un vulcano di idee e progetti che, per il momento, è stato spento”.
Una narrazione che punta a suscitare empatia verso un uomo accusato di stupro e altri reati e che, a causa di queste accuse, dovrà privare il mondo del suo genio.
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Alberto Genovese è solo il più illustre protagonista di un’intricata storia di sfruttamento, induzione alla prostituzione, droga e violenza sessuale. Questo settembre è balzato ai disonori delle cronache nazionali Luca Cavazza, ex candidato della Lega alle regionali in Emilia-Romagna, nell’ambito delle indagini sulla cosiddetta Villa Inferno. Il politico, insieme all’imprenditore Davide Bacci, organizzava feste a base di alcool, droghe e minorenni. Una ragazza di diciassette anni ha confessato di essere stata indotta a prostituirsi. Solo ora è saltato fuori il legame tra Villa Inferno e Terrazza Sentimento, il luogo in cui Genovese dava le sue feste esclusive e selvagge. Un’amica della vittima sarebbe finita in un giro di prostituzione in Emilia quando era minorenne.
Il politico e il manager legati a doppio filo a una storia torbida e agghiacciante, da far impallidire Stefano Sollima e la sua Suburra. Una storia in cui emergono, chiare e limpide, due verità. Il totale disprezzo per le donne e la convinzione che i soldi costituiscano un lasciapassare per compiere ogni genere di nefandezza. Verità cullate e nutrite dal clima misogino insito nella nostra società, che si nutre di doppi standard, in cui capita sempre di leggere commenti giustificativi o sminuenti sotto articoli che riportano la notizia.
Alcuni sono quasi innocenti: «Ma che genere di madre cresce suo figlio così?», riferito a Genovese. Padre non pervenuto. Altri cercano di scrollare le responsabilità di dosso all’orco, con il sempreverde: «Io alla loro età non sarei mai andata a casa di sconosciuti. Cosa credevano che capitasse?». Di certo non si aspettavano di essere imbottite di droga, legate a un letto, violentate e seviziate per ore. Serpeggia spesso un clima di tacita invidia per l’uomo forte, ricco, che può permettersi tutte le donne che vuole. Che può permettersi di soddisfare fantasie che all’uomo ordinario sono negate.
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«Voi non sapete chi sono io», pare abbia detto Alberto Genovese agli inquirenti che hanno bussato alla sua porta per arrestarlo.
Avevano già bussato altre innumerevoli volte, allertati dai vicini per il trambusto, senza poter impedire il peggio. Potrebbe averlo detto come no: se l’atteggiamento ostentato dal manager fosse vero, sarebbe sintomatico dell’impunità morale che questa società attribuisce ai ricchi. A cui, se non viene apertamente concesso di stuprare e umiliare le donne, viene comunque perdonato il peccato, preferendo puntare l’attenzione sulla vittima.
La misoginia interiorizzata nella nostra società impone che l’uomo debba rispettare canoni di ricchezza, benessere e successo. Le donne sono funzionali all’appagamento delle sue pulsioni, alla conferma della sua consacrazione a maschio alfa. L’idolatria per il denaro fa il resto, relegando le donne, se povere, a essere abusate doppiamente. Alcune delle ragazze coinvolte nelle feste di Genovese avevano problemi economici e di dipendenza e probabilmente vedevano nel contatto con il manager una scappatoia dai loro problemi.
Un triste meccanismo che abbiamo conosciuto al massimo della sua funzionalità durante gli anni delle “cene eleganti” di Silvio Berlusconi. La questione sociale ed economica non coinvolge però solo le donne, ma anche i vassalli del re della mondanità milanese. I bodyguard e i domestici che vigilavano sullo svolgimento delle feste sono finiti indagati insieme al loro “padrone”.
Sarebbe troppo semplice, dunque, leggere la vicenda di Alberto Genovese come l’ennesimo peccatuccio di un ricco manager avido di vita e stravizi. La parabola, speriamo catastroficamente discendente, del fondatore di start up di successo è il risultato dei danni fatti alla nostra società dal culto della mascolinità tossica e del denaro. Non ne usciremo solo infliggendo una condanna esemplare all’ennesimo orco. Il seme del male, di cui Genovese è solo l’ennesimo frutto, si annida ovunque. Comincia a germogliare ogni volta che qualcuno, nell’impunità della sua cameretta, scrive un commento di quelli che ormai ti aspetti sempre, quasi con rassegnazione, di trovare.