L’arte è tale in qualsiasi forma si possa presentare, dalla scultura alla pittura, dalla musica alla danza. Certamente una modalità di fruizione dell’arte molto particolare è quella portata sul palco dagli artisti di strada. Per artisti di strada, o in inglese buskers, si intendono coloro che si esibiscono in luoghi pubblici, come strade, piazze o festival dedicati. Spesso queste performance sono gratuite o a cappello, cioè con una offerta libera del pubblico, lasciata proprio in un cappello posto sul palco a fine spettacolo.
Le Radiose inseriscono il loro spettacolo dal titolo On Air! proprio in questo contesto. Loro stesse lo definiscono uno «spettacolo di clown musicale con canto armonizzato». Queste tre eleganti signorine, in abiti vintage, trasmettono il palinsesto di Radio Radiose, una radio che trasmette solo musica dagli anni Trenta e Quaranta, in onda rigorosamente in diretta e dal vivo.
On Air! è uno spettacolo che mescola il clown, il teatro fisico e il canto armonizzato. Il punto di partenza è la radio e tutto il suo universo fisico e sonoro, unito alla grande tradizione dei complessi vocali swing tipici della Swing Era. Il trio esegue a cappella pezzi d’epoca, ma anche brani più moderni o molto più antichi. Il gioco clownesco invece comprende tutto quello che può essere associato alla radio, come classifiche, trasmissioni di ogni genere, radiodrammi, programmi culturali, pubblicità e telefonate dai radioascoltatori.
Oggi theWise Magazine ha incontrato Valentina, Emanuela e Genea, che insieme formano Le Radiose.
Come nasce il progetto?
«Il progetto nasce da una passione comune per le canzoncine swing anni Trenta e Quaranta, nazionali e non. Ci piacevano e ci piacciono ancora questi testi veramente surreali. All’inizio eravamo un duo particolarmente concentrato su questo “sapore retrò”. Quando è arrivata la terza, c’è stata una ventata di pop anni Novanta, che ci ha portato a immaginare come portare sul palco questi contrasti musicali. Così sono nate Le Radiose e il nostro spettacolo On Air!».
Perché avete scelto per il vostro spettacolo proprio lo swing?
«Abbiamo scelto lo swing perché è un genere particolarmente allegro e perché i testi, particolarmente quelli in italiano, sono davvero surreali. All’epoca c’era un modo di scrivere più allegro e scanzonato, ma non per questo meno curato e pensato. I cantanti, le orchestre e i parolieri dimostravano un grande lavoro dietro ogni brano. Lo swing era una musica di massa, ma di estrema qualità.
Fra questi testi ce ne sono alcuni molto carini, che però diventano aberranti sulla condizione femminile. Pensiamo ad esempio a Mille lire al mese, di Gilberto Mazzi, o a Signorine sposatevi di Daniele Serra. Allo stesso modo abbiamo visto andando in strada che il pubblico è contento di vedere noi, signorine eleganti e molto “a modo”, come si sarebbe voluto negli anni Trenta e Quaranta, trasformarsi sul palco e riprendersi il loro lato istintivo e selvaggio».
Cosa significa essere artisti di strada oggi? Quali sono le difficoltà di questo mestiere?
«Tra le mille cose che un teatrante può fare, abbiamo scelto la strada perché questa permette l’incontro con un pubblico che non sa di essere pubblico. Le persone si ritrovano per caso a essere spettatori, magari passando per quella strada. Questo è bello perché è estremamente democratico, così come è democratico il biglietto. Questo non si paga prima, ma si paga alla fine, dopo che si è visto lo spettacolo e ognuno deciderà come contribuire in base al gradimento e alle proprie possibilità economiche. L’estemporaneità è secondo noi la cosa più bella del teatro di strada, unita alla capacità di poter raggiungere il maggior numero di persone possibili, anche quelle non “educate” al teatro.
La grande difficoltà di questo mestiere sta nella difficoltà di trovare i luoghi che possano o che vogliano ospitare questo tipo di spettacoli. Ci sono festival dedicati, ma negli anni la libertà di poter usare i luoghi pubblici come palco sta sempre diminuendo. Un’altra grande difficoltà è che sicuramente non è un lavoro con lo stipendio fisso».
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Come avete gestito il periodo della quarantena? Come è stato il ritorno sul palco?
«La quarantena l’abbiamo trascorsa in casa come tutti. La cosa bella che è successa durante il lockdown è stata la nascita di una coscienza di settore da parte di chi opera nello spettacolo. Gli artisti di strada si sono ritrovati senza entrate economiche improvvisamente e si sono resi conto di non avere tutele, non esistendo leggi specifiche per il teatro di strada. Risulta davvero importante che sia gli artisti stessi che i possibili datori di lavoro, cioè gli organizzatori degli eventi, riconoscano l’arte in generale come un vero e proprio lavoro.
Il ritorno sul palco è stato molto emozionante. Una delle prime date è stata proprio in provincia di Bergamo. Ci siamo ritrovate una sala piena, cosa che non ci aspettavamo assolutamente. La compagnia che organizza la rassegna a cui abbiamo partecipato ha un rapporto molto stretto con il territorio e le persone sono state molto partecipi. Siamo state il terzo appuntamento della rassegna. La gente rideva più del dovuto, avevano voglia di stare insieme e condividere un sorriso. Gli spettacoli ora hanno un valore nuovo».
Ci raccontereste quella volta in cui “tutto non è andato secondo i piani”?
«È successo lo scorso settembre. Erano le dieci ed eravamo a Piacenza (non a Roma, dove abitiamo, fortunatamente!). Lo spettacolo era a Colorno, in provincia di Parma, alle ore 17. Stavamo caricando il furgone con la strumentazione, quando ci siamo rese conto che le chiavi dello stesso erano in viaggio verso la Toscana. Mancavano poche ore alla prima replica, era un bel problema!
Dopo un momento di panico totale, abbiamo cercato una soluzione. Abbiamo pagato un meccanico che ci ha aiutato a “scassinare” il nostro stesso furgone senza danneggiarlo. Giusto il tempo di questa operazione, e siamo partite per Parma in treno, abbiamo recuperato le chiavi del furgone da un capotreno e con un passaggio, gentilmente offerto da un amico di amici, eravamo sul posto alle 16. Pronte e splendenti!».
Quali consigli dareste a chi volesse cimentarsi nel mondo degli artisti di strada?
«Indubbiamente consigliamo di studiare e di esercitarsi nell’ascolto e nella permeabilità. La caratteristica principale dell’arte di strada è quella di basarsi su quello che avviene nel momento stesso, anche sugli inconvenienti. Bisogna essere pronti a fare “bagni di relazione” con le persone che passano per la strada. Questa è la parte più bella, ma spesso la più difficile».
Secondo voi, cosa dovrebbe cambiare nella mentalità delle persone per restituire il giusto spazio all’arte in generale?
«Vogliamo riportare una frase detta da Andrea Camilleri quando hanno chiuso il teatro di Ostia, luogo a noi molto caro. La frase è: “Il teatro è il pronto soccorso dell’anima”. Oltre al teatro, ovviamente, bisognerebbe considerare ogni forma d’arte come un nutrimento per l’anima. L’arte è necessaria e pertanto come tale va ripensata».