L’ospedale psichiatrico di Colorno, in provincia di Parma, è nato nel 1873 ed è stato al centro dei cambiamenti che dagli anni Sessanta hanno segnato la fine dei manicomi, avvenuta in modo definitivo con la legge 180 del 1978. Qualche settimana fa, theWise Magazine aveva incontrato Pino Zerbini, classe 1935, che per vent’anni è stato infermiere proprio dell’ospedale psichiatrico di Colorno. Durante l’intervista ha voluto raccontare la storia di un’amicizia molto particolare con il maestro R., nata fra le mura del manicomio. Come ha raccontato lui stesso, ogni infermiere aveva in sorveglianza una ventina di pazienti. Non era difficile che venisse a crearsi un legame molto stretto fra operatore e assistito, proprio come nel caso di questa storia. L’ospedale era un luogo di tristezza e di solitudine, che l’ex infermiere stesso ha definito come «morboso e fittizio».
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Questa è la storia di Pino e del maestro di scuola elementare R., uomo molto colto, con elevati doti artistiche. Il maestro R. era però purtroppo affetto da esaurimento nervoso e soffriva di forti sbalzi di umore, che lo hanno portato dentro il manicomio parmense, fino alla sua morte.
«Voglio raccontarvi una storia che mi ha segnato molto, una storia veramente incredibile. La storia del maestro R., una persona intelligentissima, brillantissima ma che soffriva di sbalzi di umore e tendenze autolesioniste. Si è tagliato le vene una volta o due in trent’anni che è rimasto dentro.
Leggeva molto, era informatissimo, come entrava un nuovo paziente lo scrutava, cercava di capirlo. Sapeva veramente di tutto. Eravamo diventati così tanto amici, che lui diceva che io ero il suo medico personale. Io gli dicevo sempre che non sapevo fare niente più che prendere la febbre, la pressione o dare le medicine. Lui mi diceva sempre che ci mettevo il cuore nel mio lavoro, e che questo era l‘importante. Voleva che ci dessimo del tu, ma aveva vent’anni in più di me, ero giovanissimo, non riuscivo, lo chiamavo sempre “maestro”.
Un grande ricordo che ho di lui è quello legato alla morte di suo padre. Aveva la famiglia a Fidenza, sempre in provincia di Parma. Conoscevo suo padre, somigliava tantissimo a Giuseppe Verdi, il musicista. Era non tanto alto, con il tabarro, barba e baffi lunghi. Veniva tutte le domeniche. Dopo un anno e mezzo dall’ingresso di R. in manicomio, è morto. Ho sulla Gazzetta di Parma che ci sarebbe stato il funerale il giorno dopo.
Sono entrato nella stanza di R., non sapevo cosa dirgli, ma lui sapeva già tutto. Lo abbraccio, gli faccio le condoglianze, era malinconico ma non abbattuto. Allora gli ho chiesto: “Le andrebbe di fare l’ultimo tratto dal cimitero a casa di suo papà?”. Una legge impediva che gli internati prendessero parte a funzioni pubbliche, se lo avessi fatto avrei rischiato il licenziamento e R. non voleva che mi licenziassero.
Sono andato allora dai miei superiori, chiedendo di portare R. al funerale del padre. Tutti mi dissero che il matto ero io, non il maestro! Allora chiesi cosa avrebbero voluto, se fossero stati loro stessi gli internati, e fosse stato il funerale di loro padre. Non ricevetti risposta. Dissi: “Voi fate i rapporti che volete, io ci vado!”.
Andai da R. e gli dissi che saremmo partiti a breve sulla mia macchina. Siamo arrivati a Fidenza. Lui aveva anche due sorelle, che abitavano a Bologna, ma lui non le voleva vedere. Diceva che erano loro la causa della sua malattia. Era un uomo brillante, ha lavorato alla FIAT a Torino e poi in banca a Bologna. Diceva sempre che le due sorelle lo facevano lavorare sempre di più e sfruttavano la sua intelligenza per fare sempre più soldi. Così era caduto in esaurimento nervoso. Non le ha mai potute vedere, venivano a trovarlo a Colorno, ma lui non voleva che entrassero.
Finita la funzione funebre, siamo tornati all’ospedale. Fortunatamente era andato tutto bene. I miei superiori non hanno voluto sapere niente, non hanno scritto niente. Come se non fosse successo niente. Meglio così.
Ricordo poi che una delle sue sorelle morì in un incidente stradale. Il maestro ereditò quasi cinque milioni di lire dall’assicurazione. Mi disse di averli ereditati, e che voleva investirli. Mi mandò a comprare dell’oro a Parma: lingotti, catenine, fedine e medaglioni della cattedrale di Parma. Il negoziante, che era un mio amico, era davvero incredulo. Pagai tutto in contanti.
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Tornato all’ospedale, il maestro ha insistito per regalarmi tutto. Io non volevo, assolutamente no. Allora optammo per nascondere tutto l’oro negli armadietti dell’ospedale. Dividemmo l’oro e lo mettemmo in cinque armadietti. Era convinto che se un ladro avesse aperto un armadietto, avrebbe trovato qualcosa e si sarebbe accontentato, non aprendo gli altri.
Mettemmo gli armadietti nel solaio, dove avevamo ricavato il suo “studiolo”. Il maestro R. era anche un pittore, facemmo addirittura delle mostre. Sapevamo solo io e R. che ci fosse dell’oro, e soprattutto dove fosse.
Era un rapporto molto stretto, ma a un certo punto io non ne potevo più. Allora mi feci spostare di reparto, andai in osservazione, dove ai malati era vietato entrare. Una volta urlava dal dolore, si sbracciava e chiamava il mio nome. Andai lo stesso a vedere cosa succedesse, e trovai R. legato che urlava. Diceva di avere un pezzo di carne in un dente cariato. Glielo tolsi, e lui mi disse: “Mi hai ridato la vita!”. Credo che volesse me, e che sapesse che nessuno avrebbe avuto il coraggio di mettergli le mani in bocca.
A lui mancavo molto, e dopo qualche mese, andò nel suo solaio. Era uno di quei momenti no, di quei momenti in cui era triste e depresso. Lo andammo a chiamare per la cena, ma la porta era chiusa e si sentivano dei lamenti. Il maestro R. aveva tentato il suicidio, una cosa terribile. Si era trapanato sei volte il cranio, senza mai arrivare a toccare il cervello. Non era morto. Non voglio dire che abbia tentato il suicidio per colpa mia, ma sicuramente la nostra lontananza ha giocato a suo sfavore.
Il giorno dopo andai alla pubblica assistenza a trovarlo. Era tutto fasciato, gli occhi aperti, la bocca spalancata, ma non parlava. Aveva la febbre a quarantuno gradi. Il mattino dopo era morto.
La sua grande storia però, non era finita. Il maestro era morto, ma il suo oro era rimasto dentro le mura del manicomio. Bisognava tirarlo fuori da li. Quando andammo a recuperarlo, durante la conta, mi accorsi che mancava un lingotto. Avevo paura che dessero la colpa a me, visto che solo io sapevo di questa cosa. Cercammo ovunque, persino in banca.
Chiamai Mario Tommasini in persona, spiegandogli l’accaduto. Lui mi disse che il maestro R. era un comunista sfegatato, aveva la tessera del PCI, ma non gliela avevano data perché internato.
Il maestro aveva pensato di inviare un pacco al segretario nazionale Enrico Berlinguer, via delle Botteghe Oscure, Roma. Era la sede del Partito Comunista Italiano. Il pacco conteneva il lingotto d’oro mancante, che nei voleri del maestro R. sarebbe dovuto servire come fermacarte sulla scrivania del politico. Dopo la tristezza per la sua morte, con questo aneddoto, mi sono un po’ ripreso.
Del maestro, conservo ancora un grande ricordo, diciamo così, materiale. Aveva una bellissima calligrafia, e un mio caro amico si stava per sposare. Allora gli ha fatto una pergamena per il matrimonio. Stavo per sposarmi anche io, ma io volevo solo gli auguri sinceri da parte del mio amico R., ma lui insistette per fare una pergamena.
La mia era bellissima. Addirittura mi chiese le firme dei miei amici, e le ricopiò sulla carta, come se la avessero firmati loro stessi. Conservo ancora quella pergamena in casa mia».
Grazie a Paola Panciroli, con la quale ho condotto questa intervista.