Ascolto canzoni dei Lunapop, guardo una puntata di Via Zanardi 33, cerco su YouTube uno scherzo telefonico di Mammuccari, in un momento in cui ancora lo potevi guardare in faccia senza contemplare la caducità del creato. Sono cresciuto durante questi anni; anni vittima di una perdita collettiva di memoria, cancellati completamente dalla cultura di massa.
Passati quatti quatti, come se volessero essere dispersi, obliati dal tempo e dall’uomo. Quest’ultimo decennio è stato un costante bombardamento novantino. Sono tornate la dance e le sue icone, i cartoni animati, Gialappa’s e Iene quando erano ancora freschi boccioli di rosa.
Eppure degli anni che hanno seguito il nuovo millennio e, in maniera più specifica, il nuovo decennio, ognuno sembra averne dimenticato l’esistenza. Cosa ci rimane quindi degli anni della non vita, della scomparsa della cultura di massa dai radar di chi in quel momento la viveva nei suoi anni più recettivi?
La parte comica è che neanche io, che li dovrei aver vissuti, riesco a ricordarmene con chiarezza. È stato tutto trascinato dalla corrente: ciò che è rimasto è il trash. Nascosto, ma felice, il trash è la più grande eredità culturale del tempo. Si dovrebbe dire anzi che è l’unica.
Tutti gli altri rami, quelli spunti culturali che anche c’erano, sono seccati; rami appassiti di un albero che era già da tempo deceduto.
Pappalardo che urla a L’isola dei famosi: «I chiapatoni!», il «mai più, mai più» di Zequila, le varie pessime sitcom e fiction TV italiane di quell’epoca assieme a uno dei periodi più bui della nostra produzione cinematografica. Questo rimane, ma nulla più. Nessun recupero, nessuna innovazione.
Bello Figo, Andrea Diprè e compagnia cantante sono semplicemente devoluzioni di cose preesistenti, già viste e sentite, già fatte. Se ne era parlato con Lundini: si è ormai in una fase di rielaborazione talmente profonda che il “vecchio” in quanto tale ormai non esiste più.
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Il simbolo della cultura pop italiana attuale è un uroboro, un serpente che si morde la coda ed eternamente vomita sé stesso. In un passato di umana memoria da ciò nascevano dei, ora al massimo qualche buon comico da seconda serata.
Cos’è successo quindi tra il 2001 ed il 2008? Di quel prolungamento artificiale della tranquillità e della speranza degli anni Novanta, cosa ci è rimasto? Oltre al trash, dico, cosa ci è rimasto?
La risposta è: nulla. Il vuoto, la non vita, l’Italia fino alla grande crisi non esiste. È un guscio di apparenza e intrattenimento spicciolo che tira a campare grazie all’antiberlusconismo interpretato, per necessità, in maniera elevata.
Il vago ricordo di Santoro, grillino ante litteram, nella sua eterna battaglia contro i mulini a vento; un concetto di TV che soltanto la parola “imbarazzo” riuscirebbe bene a definire. Si giocava a fare i rivoluzionari, si mandava Grillo in diretta TV mentre faceva i comizi dai Vaffa Day come se niente fosse, come se ci facesse bene, omeopatia dell’anima.
Ci sarà anche un motivo per cui non è rimasto nulla, ci sarà un motivo per cui viviamo nell’arido deserto del dopo. Come dopo un rave particolarmente violento, noi siamo al punto in cui compare la polizia e arresta i poveri cristi che sono arrivati troppo tardi.
Essere i figli del nulla, del vuoto cosmico della cultura e della politica. Della sfiducia cronica nelle istituzione (intese largamente come culturali), cosa porta a noi? Nulla. Viviamo nell’imitazione di modelli migliori, di cose più belle e meglio fatte.
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Ed è qui il grande fraintendimento. Quella italiana degli ultimi anni non era nostalgia. Era terrore, era melanconia, ma non nostalgia. Non è semplicemente una disperazione sana su cose belle che la memoria vorrebbe rivivere, ma una necessità per respirare ciò che nell’intimo sai di non poter replicare.
Non è nostalgia, perché molte delle persone che questa nostalgia condividono sono troppo giovani per aver assorbito direttamente quell’humus culturale.
Si accusa Berlusconi di aver rovinato culturalmente questo Paese, ma è una menzogna. Lui ci diede l’ultimo fulgore, l’ultimo bagliore di decenza.
Un’illusione di paradiso senza nulla all’interno. Berlusconi è null’altro che la messa in scena di una tragedia già scritta e che continuiamo a vivere. Si incolpa l’attore per le frasi che gli imbocca il regista? Solo se l’attore fa un pessimo lavoro (cosa che Berlusconi fece anche, ma questa è un’altra storia).
Ci accontentiamo di vivere in rovine ancora, per poco, comode alla vita umana, mentre Fuori c’è la morte.
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