Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, ha sentito il nome di Paolo Rossi pronunciato dal proprio padre, nonno o zio. O magari sentito il nomignolo Pablito, scandito accanto a el hombre del partido. Credo che in una sala di cento persone, più della metà siano in grado di alzare la mano; perché hanno vissuto sicuramente il racconto dell’uomo che ha fatto vincere all’Italia i Mondiali di Calcio del 1982.
Da Paolo a Pablito
Ci sono giocatori che devono abbandonare la carriera per infortuni, altri che non riescono a emergere nonostante fossero un passo avanti a tutti nelle giovanili. E altri ancora che, tra la speranza di arrivare e la certezza di sfruttare una minima conoscenza o influenza nel pallone, si adagiano su quel momentaneo minuto di celebrità.
Paolo Rossi è stato quasi tutto questo. Dico quasi perché, nonostante abbia risposto ad almeno un paio delle voci citate precedentemente, è sempre riuscito a rimboccarsi le maniche e tornare sul campo da gioco. La passione per il calcio e la voglia di dimostrare la sua caparbietà sono stati elementi fondamentali grazie ai quali, dopo tanti anni dal suo primo tiro in porta, è riuscito a coronare un sogno.
Come spesso accade, basta un niente per cambiare la storia. E giusto per confermare la regola, la carriera del ragazzo di Prato ne è la piena dimostrazione. È caduto e si è rialzato più volte ancora prima di vedere un pelo di barba sul suo viso; poi è caduto di nuovo, quando la sfortuna sembrava avesse ormai smesso di bussare alla sua porta.
Sul più bello gli dei del calcio si sono ricordati di lui, quando la gente stava cominciando a dimenticarsene. Come Mattia Pascal si trasformò in Adriano Meis, così Paolo si trasformò in Pablito, sotto un cielo spagnolo di metà estate. Senza cambiare viso, senza toccare il capello, senza nascondersi. Se non alla luce del sole, dietro quel talento che finalmente si era preso il posto che meritava, davanti a tutti.
Se ne accorsero, in ordine, gli argentini di un giovanissimo Maradona e in seguito i brasiliani di Zico e Falcao. Tutto prima che in semifinale i polacchi restassero inermi davanti al quarto e al quinto goal mondiale del ritrovato bomber della Juventus. E infine lì, sotto le grida del Santiago Bernabeu, aprì la scena contro la Germania Ovest. Quella di Breitner e Rummenigge; quella che ancora oggi ricordiamo perché Grosso nel 2006 ha fatto una corsa “alla Tardelli”; quella che «Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo».
Quella di Pablito, el picici, el hombre del partido.
Dopo il 1982: il pallone d’oro e il carrasco do Brasil
Con la vittoria del mondiale, Paolo Rossi permise a un’intera generazione di nuovi giocatori di credere fino in fondo in ciò che poteva essere fatto, nonostante non fosse tutto rose e fiori. Sicuramente Pablito non era stato il primo e non sarebbe stato l’ultimo ad arrendersi per gli infortuni; ma così non fece, e mostrò al panorama internazionale cosa si può fare con la forza di volontà.
Da un primo infortunio al legamento crociato erano passati dieci anni, durante i quali l’ormai ventiseienne aveva dovuto affrontare ogni tipo di malasorte. E il pallone d’oro fu il giusto riconoscimento per un giocatore che al di là di tutto ha portato sulle spalle una squadra dilaniata da insicurezze e trascinata fino in finale.
La perfetta metafora della sua vita: il talento c’è, la voglia anche ma la sfortuna è troppo più forte. Ma quella volta, dopo tre pareggi, dopo una squalifica, dopo la paura di non farcela, Pablito si è trasformato, e ha trasformato il modo di giocare e di vincere di undici giocatori. E per quanto sembri incredibile, anche di una nazionale intera.
Proprio quel Brasile che lo battezzò chiamandolo carrasco (boia) dopo la tripletta che spalancò l’olimpo agli azzurri. Proprio quel Brasile che cominciò a giocare pensando anche a difendere e non solo ad attaccare. La stessa verdeoro che ha poi vinto altri due mondiali negli anni a venire, tra cui uno proprio contro l’Italia di Baggio con il maledetto rigore del 1994.
Ma Paolo era questo: nel bene o nel male, bisognava ringraziarlo.
Paolo Rossi c’est moi
Con quel non so che di guasconeria, Paolo racchiudeva al suo interno una miriade di stereotipi del calciatore tipo. Gli infortuni, la bellezza sorniona, il talento del giovane giocatore. Era l’eleganza della normalità alla sua massima espressione, trasformata in pragmatismo allo stato puro. Paolo Rossi era ciò che ogni italiano pensava di poter essere e voleva poter diventare: un sognatore con il cassetto che aveva tenuto quel sogno bello stretto e che finalmente era maturo per poter essere colto.
Ogni bambino, adulto, anziano. Così come loro, anche svariati millenial,hanno negli occhi e nella mente due immagini di quel mondiale spagnolo: Tardelli che esulta per il 3-0 contro i tedeschi e Pablito che apre le marcature contro il Brasile. Ma non un Brasile qualsiasi,; probabilmente il più forte Brasile dai tempi dell’ultimo mondiale vinto con Pelé.
E con quel goal Pablito dimostrò come l’impossibile si poteva trasformare in reale, come la caparbietà poteva battere il talento se il talento non era abbastanza allenato e coeso. Ma l’ultima partita persa da Paolo è stata qualcosa di invincibile davvero. L’ultimo infortunio, dal quale non si sarebbe potuto mai guarire.
Così come nel 1982, nel bene o nel male Pablito ha ancora una volta ricordato a tutti che siamo mortali, che non siamo ultraterreni. Ma la bellezza della morte, se un accenno di bellezza e cortesia si vuole trovarla a tutti i costi, sta nel suo trasformarti in un simbolo immortale.
Ma cara Morte, arrivi tardi.
Paolo lo era già.