Il 27 novembre 2020 ad Absard, nei pressi di Teheran, il mondo ha assistito all’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh. Chi era quest’uomo e cosa rappresentava per l’Iran? All’apparenza questo fisico nucleare può risultare un normale individuo, ma il suo ruolo era molto più grande. Secondo l’opinione internazionale, Fakhrizadeh non era solo una delle mente più brillanti del suo campo. In realtà, (non così tanto) segretamente, egli era a capo di un programma speciale per lo sviluppo di un’arma nucleare dell’Iran.
La dinamica del suo attentato è stata differente da quella che uccise il generale Soleimani, il 3 gennaio di quest’anno. Un’arma automatica, che ha crivellato di colpi il veicolo su cui viaggiava il fisico, è stata lo strumento dell’assassinio. I responsabili dell’accaduto non sono ancora stati ufficializzati, ma i sospetti dell’Iran sono ricaduti su Israele. Questo avvenimento si inserisce in un quadro economico-politico già compromesso per il Medio Oriente. In aggiunta è molto importante considerare anche il momento in cui questo evento accade. Andiamo ad analizzare tutti gli aspetti.
Immediata la reazione delle alte autorità iraniane, che hanno da subito indicato un preciso colpevole. Difatti, in una nota ufficiale il Presidente Hassan Rouhani ha pubblicamente accusato lo Stato di Israele:
Once again, the evil hands of global arrogance were stained with the blood of the mercenary usurper Zionist regime.
Rouhani ha sottolineato come la morte del fisico nucleare non sarebbe passata impunita. Difatti anche l’alta autorità religiosa, l’Ayatollah Ali Khamenei, tramite i media iraniani, ha fatto sapere che vi sarà una reazione «ben precisa e commisurata». Qualora sia in qualche modo confermata la responsabilità diretta di Israele, è ipotizzabile che la città portuale di Haifa sia il bersaglio indicato. L’ipotesi è confermata anche dalle parole del giornalista Saadollah Zarei:
The attack should be carried out in such a way that in addition to destroying the facilities, it should also cause heavy human casualties.
Segue la linea del presidente anche il Parlamento nazionale, il quale ha evidenziato in una nota ufficiale, che nell’attentato è riconoscibile «the hand of the murderous Zionist regime». Dunque anche il Parlamento focalizza la responsabilità su Tel Aviv. Come immediata risposta, il Majlis (ovvero il Parlamento iraniano) ha chiesto un’interruzione delle ispezioni internazionali ai siti nucleari dell’Iran. La linea nazionale è diventata ancora più dura dopo che a febbraio, a seguito delle elezioni che hanno visto il più alto turnover della storia, vi è stata una presa di controllo dei conservatori. Proprio la nuova maggioranza chiede un immediato cambio nel programma nucleare nazionale. È stato difatti approvato un testo, il Piano di azione strategica per la rimozione delle sanzioni, che prevede due punti fondamentali. Questi punti interessano la produzione di uranio e le sanzioni del 2018.
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In tutto questo cosa c’entrano gli Stati Uniti? Bisogna ricordare innanzitutto che sono il grande antagonista geopolitico dell’Iran. Proprio Teheran, in seguito all’insediamento alla Casa Bianca di Trump, si è vista quasi “accerchiata” da Washington. Perché questa sensazione? La politica nel Medio Oriente degli USA aveva preso un’ottima piega durante la gestione Obama. Nel 2015 gli USA erano, assieme all’Iran e le potenze nucleari, entrata in un accordo chiamato Joint Comprehensive Plan of Action(JCPOA).
Cosa prevedeva questo trattato? Una riduzione, su molti aspetti, della produzione nucleare dell’Iran, portandola sostanzialmente ad una produzione civile. L’avvento di Trump ha però cambiato radicalmente prospettiva. Sempre scettico sul trattato e sulle vere intenzioni dell’Iran, Trump nel 2018 ha prontamente deciso di uscire dal JCPOA. Come conseguenza di ciò ha interrotto la politica di dialogo con Teheran, come testimoniano le successive sanzioni imposte.
È tornato così a un approccio più conservativo, con le alleanze strette con Israele e i Paesi sauditi. Inoltre, Trump ha evidenziato come l’Iran abbia ripetutamente violato i termini dell’accordo del 2015, aumentando i sospetti che Teheran avesse quasi pronta l’atomica. Fatto questo discorso, è prematuro e sciocco affermare, per ora, che l’assassinio di Fakhrizadeh sia avvenuto per mano diretta degli USA, come fu quello di Soleimani.
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Arriviamo ora al principale sospettato dell’attentato del 27 novembre, Israele. Perché le autorità iraniane sono state subito così pronte ad accusare lo Stato sionista? Sicuramente l’avvento di Trump e il successivo asse formatosi con Washington hanno ridato vigore a Tel Aviv come attore geopolitico nella regione. Così come gli USA, anche Israele già in passato ha accusato l’Iran di nascondere elementi essenziali del suo programma nucleare.
L’Iran è accusato infatti di aver iniziato un programma nucleare nel 2003, denominato AMAD, il quale avrebbe portato Teheran a possedere la bomba in pochi anni. L’aspetto rilevante era che si sospettava che proprio Fakhrizadeh fosse a capo di tale programma. Nel 2015 il JCPOA servì proprio a questo, per tagliare le produzioni iraniane a vantaggio degli Usa, e per alleggerire le sanzioni a vantaggio dell’Iran, con una logica win-win.
Questo passo non andò a genio a Israele, che già in quel momento manifestava la sua insofferenza verso Teheran. La svolta con il cambio di presidenza nel 2018 diede nuovo vigore allo stato sionista, il quale presentò delle accuse formali. Nel 2018 il governo di Tel Aviv annunciò di avere delle prove concrete sulle false dichiarazioni di Teheran sul programma nucleare. E qui si arrivò al momento chiave che ci ricollega agli eventi del 27 novembre: durante la conferenza dell’annuncio, il Primo Ministro israeliano Netanyahu disse:
Remember that name, Fakhrizadeh.
Tutto fa sembrare come l’iscrizione ufficiale del fisico nucleare alla lista nera di Israele, e proprio due anni dopo quest’uomo è stato fatto fuori. Ora è quasi scontato fare l’associazione logica tra i due eventi, ma non bisogna cadere in questo errore. Sicuramente, come già ripetuto, è possibile che la presenza di Trump abbia costituito quasi un avallo a un’azione estrema di Tel Aviv, ma ciò non è stato ancora provato.
Cosa bisogna aspettarsi quindi nell’immediato futuro? Sicuramente la prima cosa sarà chiarire con certezza non chi ha materialmente compiuto l’attentato, ma l’attore statale che ne è stato mandante. Questa situazione, di per certo, non va ad agevolare l’imminente lavoro, del primo grande cambio di potere, in uno degli attori in gioco. Difatti tra poco più di un mese, si insedierà il 46° Presidente della storia USA, Joe Biden.
Quali sono i margini di manovra di Biden? Sicuramente dovrà ricomporre una frattura pesante tra Washington e Teheran, che Trump ha aperto nel 2018. Come riuscire in questo compito? La strada dei “passi indietro” è poco praticabile, perché rientrare nel JCPOA con i termini del 2015 a questo punto è molto difficile. La strategia più plausibile è quella del “compromesso”: venire incontro all’Iran, magari sollevandolo da qualche pesante sanzione di Trump del 2018. Probabilmente Teheran spingerà anche per eliminare i continui controlli della IAEA (International Atomic Energy Agency).
Come contro-parte di un possibile accordo, Teheran potrebbe attuare dei tagli alla produzione nucleare. Qualora però Biden non dovesse riuscire in questa opera diplomatica, la tensione potrebbe salire nella regione del Medio Oriente. Proprio in questo senso, nei giorni successivi l’assassinio di Fakhrizadeh, vi sono state le varie reazioni internazionali, che puntano allo stesso obiettivo: impedire un’escalation di violenza nella regione. Il verificarsi di tale scenario dipenderà anche dagli altri cambi di regime: le imminenti elezioni in Iran (giugno 2021) e la possibile dipartita di Netanyahu. Dunque il prossimo anno, che segue quello incerto della pandemia che ha afflitto il mondo, sarà per altri motivi più importante e imprevedibile che mai.
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