«Io non parlo di cose che non conosco», diceva Nanni Moretti. Dopo la nascita dei social network chiunque può, anzi è incoraggiato, a esprimere opinioni su qualsiasi argomento dello scibile umano. Ciò ha portato questa citazione, negli ultimi tempi, a diventare il vessillo di chi sostiene che non dovremmo parlare di quello che non conosciamo perfettamente: ma è davvero così?
Non vogliamo negarlo, l’abitudine di ragliare opinioni su argomenti di cui non si sa niente ha prodotto danni devastanti in ogni ambito: politica, femminismo, cambiamento climatico, l’attuale pandemia in atto e molti altri. Incoraggiato dalla struttura volatile ed epidermica dei social network, l’utente medio si sente in dovere di esprimere il suo parere a proposito di questioni su cui non ha un briciolo di formazione. Così, di giorno in giorno, assistiamo allo spettacolo di un popolo che si maschera di volta in volta da economista, sociologo, giornalista, epidemiologo della domenica.
L’effetto più deleterio di questa attitudine è stato sicuramente il diffondersi di numerosissime teorie del complotto e fake news tra la popolazione e lo sminuirsi sistematico delle opinioni delle persone realmente competenti, equiparate a quelle infondate dei cialtroni di turno. Come diceva Homer Simpson, siamo travolti da un surplus d’informazione creata da una miriade di «stramboscemi» che appestano la rete con le loro bislacche teorie, che pretendono valide solo perché hanno la libertà di esprimerle.
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Comprensibilmente, in risposta a questa follia collettiva, una buona parte della popolazione ha sviluppato il pensiero che non si dovrebbe parlare di ciò che non si conosce bene. Idea condivisibile, che però porta in sé una serie di spinose implicazioni. Prima di tutto, cos’è che si conosce veramente bene? Per le persone normali (cioè chi non svolge un lavoro altamente specializzato) praticamente niente. Se va bene, si conosce la materia inerente al proprio mestiere, ma molte volte nemmeno quella. In pratica, se dovessimo attenerci scrupolosamente al pensiero sopracitato, non potremmo parlare di nulla. Politica, economia, sport, storia, letteratura, arte, cinema, fisica quantistica, femminismo, astronomia, scienze naturali, matematica, eccetera. Chi può dire di conoscere perfettamente questi argomenti? Praticamente, quasi nessuno.
Secondo, c’è sempre qualcuno che conosce la materia meglio di me. Se assumiamo che non possiamo parlare di quello che non conosciamo è implicito che solo chi conosce può parlare, e solo chi parla può prendere decisioni, e chi prende decisioni comanda. Ciò è in via di principio giusto, ma elevato all’estremo questo concetto ci porta a immaginare il formarsi di una classe oligarchica di competenti, in pratica intellettualmente illuminata, che dovrebbe guidare la nazione dal chiuso della sua torre d’avorio, impermeabile alle critiche, perché chi critica è in definitiva, più stupido (e molto spesso più povero). È uno scenario pericoloso: il potere nelle mani di pochi, per quanto preparatissimi, non ha mai sortito grandi risultati, perché la conoscenza e la realtà sono co-costruite dalla totalità del consorzio umano, non appannaggio di un ristretto gruppo di persone.
Terzo, quasi nessun cittadino ha piena contezza di come funzioni la macchina statale. Nessuno è esperto di diritto, nessuno conosce (tutta) la Costituzione, in pochi sanno davvero come funziona un’elezione. Eppure tutti votiamo. Ciò è una palese violazione del pensiero che abbiamo espresso all’inizio: se non sono esperto, perché dovrei essere chiamato a esprimere un’opinione? Qualcuno infatti, esasperato dall’ignoranza dilagante degli italiani (a sinistra!), ha già paventato la creazione di un patentino o di un esame per votare. Si tratta di una proposta a dir poco reazionaria che, ovviamente, non può essere accettata, perché restringe sensibilmente il campo dei diritti fondamentali di noi tutti.
In pratica, dire che solo chi è esperto di un argomento può parlarne porta a due cose. La prima è una sostanziale immunità alle critiche, perché quello dell’esperto è una bolla chiusa, impermeabile. La seconda, è una marginalizzazione dei ceti meno istruiti, e quindi più poveri, che a causa della loro ignoranza non hanno diritto di parola. In certi contesti è giusto che sia così: non si può certo chiamare chicchessia a discettare di evoluzione o a produrre un vaccino, ma in altri contesti, quelli che riguardano noi tutti, cioè la politica, l’economia, la filosofia e la letteratura, è vitale ci sia collaborazione tra “chi sa” e “chi non sa”, perché siamo tutti coinvolti e l’elaborazione della conoscenza non può prescindere da un contributo collettivo. L’opinione di chi “non sa” deve essere tenuta in conto, non ci si può arroccare dietro una supposta competenza, bollare gli altri come ignoranti, blastarli e non ascoltarli. Perché, alla fine, a fare le rivoluzioni è sempre stato chi “non sapeva” e il cambiamento è sempre collettivo.
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Come si fa allora, come si fa a tenere in conto le opinioni di tutti senza scadere nella follia, nell’ignoranza e nel complottismo? Si potrebbe rispondere che la risposta sta nell’accumulare una grande quantità di informazioni sugli argomenti fondamentali. Certo, male non fa, ma questi sono così tanti e la quantità di informazioni così vasta che si tratta di un processo virtualmente infinito. La risposta allora può essere una sola: più che riempire la testa di nozioni, dobbiamo imparare a pensare utilizzando buon senso, senso critico, empatia e razionalità. In questo modo, anche se non sappiamo (quasi) nulla, dovremmo prendere più o meno la decisione giusta. La vera sfida, per l’Italia, sta nell’imbastire un sistema educativo che riesca davvero a insegnare questi dispositivi mentali.
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