Nato a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, nel 1941, Enrico Ganassi è un pittore affermato sulla scena italiana. Durante la sua carriera, ha dipinto oltre settecento tele. Le sue opere si trovano in uffici pubblici, banche, chiese e collezioni private in Italia e all’estero.
Fra le sue esposizioni più importanti si ricordano quella di Firenze del 2014, dedicata all’Inferno dantesco e quella di Verona del 2015, dedicata al Paradiso.
Oggi theWise Magazine ha intervistato il pittore reggiano Enrico Ganassi.
«Me lo ricordo come se fosse ieri. Alle scuole elementari, invece di ascoltare la maestra, purtroppo, guardavo sempre fuori dalla finestra in cerca di uccellini. Li guardavo fare il nido sui pioppi del giardino e avevo imparato a riconoscerli. La maestra, vedendo la mia “passione per la matematica”, mi disse di fare un disegno mentre i miei compagni facevano un esercizio. Ho iniziato così, con questi piccoli disegni.
A vent’anni sono stato malato di bronchite asmatica, e sono rimasto costretto in casa qualche tempo. Avevo un falco addomesticato come animale domestico, che è stato soggetto di uno dei miei primi ritratti. Un signore del paese me lo ha acquistato e con i soldi ricavati ho subito comprato i colori e il cavalletto».
«Dopo aver preso le prime attrezzature, mi recavo spesso lungo il Tresinaro, il fiume del mio paese natale, per dipingere paesaggi. Un giorno notai dei pesci che stavano morendo a causa dell’inquinamento. Erano gli anni Sessanta. Da lì ho iniziato la mia serie di dipinti che avevano come soggetto il baratro. Questi avevano una linea dell’orizzonte spezzata e piegata, come avvertimento all’uomo che stava distruggendo la natura. Per tanti anni sono stato chiamato dai giornali “il pittore del baratro”. La mia era una pittura di denuncia. L’uomo, distruggendo la natura, andava lentamente verso la distruzione di sé stesso.
Ricordo di aver fatto una mostra in Svizzera, a Lucerna, nel 1984. Le persone erano molto affascinate e volevano comprare le mie opere. Quando però spiegavo il loro significato, l’umore cambiava e le persone non le compravano. Mi è stato allora consigliato di eliminare la serie de Il Baratro dalle mie esposizioni. Io non avrei mai potuto farlo, perché il baratro era dentro di me, era nella mia terra. Solo qualche anno dopo ho abbandonato questo soggetto, per vedere cosa ci fosse “oltre”. Leggendo l’Apocalisse, ho potuto comprendere che l’idea successiva sarebbe stata quella della rivelazione e della speranza. L’arte deve sempre essere capace di cogliere le emozioni del tempo presente e del futuro».
«Nel 2014 ho esposto una serie di trentotto dipinti a tema Inferno a Palagio di Parte Guelfa, a Firenze. L’anno successivo ho esposto a Verona delle opere riguardanti il Paradiso. Il messaggio di Dante Alighieri è quello della speranza. Questa idea è nata dalla mia ventennale esperienza come infermiere nell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia. Lì ho visto ogni genere di sofferenza, persone che giravano letteralmente ogni giorno intorno a un tavolo senza trovare soluzione a questa vita.
Tramite l’Inferno e il Paradiso ho voluto allora rappresentare la sofferenza e la speranza, la rinascita. La sofferenza esiste ed è innegabile, ma dopo tutta questo dolore è necessaria una ricompensa. Ho tralasciato il Purgatorio proprio per i miei ex pazienti. Lo stesso Gesù sulla croce ha detto al malfattore crocifisso con lui: “Oggi stesso sarai con me in paradiso”. Dopo tanta sofferenza in vita, io vedo quelle persone sofferenti direttamente in paradiso».
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«Secondo il mio modesto parere è la sofferenza che crea. Quando ti senti schiacciato dall’ansia, quel sentimento che ti destabilizza riesce a produrre qualcosa di nuovo. Molte persone davanti alla tela bianca sono spaventate. Io invece perdo ogni angoscia, perché la trasferisco sulla tela. Quando finisco un quadro, se non mi piace lo elimino subito, altrimenti lo conservo senza guardarlo per una decina di giorni. Successivamente lo riprendo in mano e lo tengo solo se mi riesce a suscitare qualche emozione. L’arte deve sempre dare sensazioni, positive o negative che siano, altrimenti è morta in partenza.
Recentemente ho sofferto una grande dolore, dovuto alla scomparsa di mia figlia di soli quarantatré anni. Le ho fatto cinque ritratti nelle diverse età della vita, è stata una sofferenza indicibile. Non facevo altro che dipingere. Davanti alla tela bianca vedevo già il ritratto completo. Non mangiavo nemmeno, mia moglie mi chiamava ma io ero troppo intento nel mio lavoro. Mi sentivo come se stessi ricreando mia figlia con un dipinto».
«La mia opera preferita è sempre quella che sto dipingendo in quel dato momento. Non ho venduto tanti quadri che mi sono stati chiesti, proprio perché erano gli ultimi fatti e non volevo lasciarli. Attualmente sto lavorando a un’immagine di Santa Caterina d’Alessandria, patrona di Scandiano, che volevo donare in occasione della celebrazione del 25 novembre scorso, saltata per gli ovvi motivi sanitari».
«L’arte è dentro all’uomo. L’importante è che sia anima, non commercio. L’arte è un messaggio che va dato all’uomo e il messaggio deve essere comprensibile al fruitore. L’artista, con la sua sensibilità, deve cogliere la realtà e denunciarla sulla tela. Per me l’arte non deve essere solo decorativa e non deve essere mero commercio. Auspico per l’arte una sorta di nuovo Rinascimento. Non ci si improvvisa artisti e le opere d’arte non si possono fare in serie solo per guadagnare. In questo senso spero in un nuovo Rinascimento: una nuova arte che sia comprensibile al maggior numero di persone possibili, ma che sia comunque sia arte profonda, con sentimento e denuncia da parte dell’autore. La pittura deve rendere visibile e comprensibile l’invisibile».
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