L’omeopatia e gli omeopati, in qualità di “outsiders”, sono stati relegati dalla storiografia tradizionale a un ruolo secondario nella storia della terapeutica. In realtà, questo sistema medico ha occupato una posizione rilevante nel panorama scientifico del diciannovesimo secolo, e non solo. Dagli ultimi dati ISTAT emerge infatti che il 4,1% degli italiani vi ricorra almeno una volta nella vita.
Considerate le dimensioni del fenomeno, appare quindi estremamente utile una ricerca storica che affianchi gli studi preesistenti di carattere strettamente medico-scientifico. Lo scopo è comprendere il modo in cui i principi della medicina omeopatica sono stati introdotti nel nostro Paese, a quali tipi di sperimentazione sono stati sottoposti e a quali motivi è riconducibile il loro innegabile successo.
1810: la fondazione dell’omeopatia
Com’è noto, l’omeopatia è una pratica medica, non riconosciuta dalla comunità scientifica, nata tra la fine del diciottesimo e gli inizi del diciannovesimo secolo. Il suo fondatore, Christian Friedrich Samuel Hahnemann (Meissen, 1755-Parigi, 1843), ne ha esposto i capisaldi all’interno dell’Organon dell’arte di guarire, pubblicato per la prima volta a Dresda nel 1810. I due pilastri fondamentali della medicina omeopatica sono rappresentati dal principio di similitudine (similia similibus curantur) e dal principio delle diluizioni infinitesimali.
Il primo afferma che per ottenere la guarigione del paziente occorre somministrargli una sostanza in grado di provocare nel soggetto sano sintomi analoghi a quelli della malattia che s’intende curare. Il secondo principio, invece, afferma che la sostanza curativa deve essere diluita in un rapporto di 1 a 100 con il solvente, per un massimo di trenta volte (limite ampiamente superato da alcuni seguaci di Hahnemann).
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I rimedi omeopatici arrivano a Napoli
La medicina omeopatica arriva in Italia, precisamente a Napoli, nel 1821, al seguito delle truppe austriache chiamate da Ferdinando I, sovrano delle Due Sicilie, a sedare alcune insurrezioni antiborboniche. All’interno dell’armata vi sono diversi medici convintamente omeopati, che convertono alla nuova pratica tre dottori napoletani: Romani, Mauro e De Horatiis. Quest’ultimo, in particolare, è centrale per la diffusione e la promozione dell’omeopatia nel resto della penisola. A lui si deve una sperimentazione non controllata della pratica medica, svolta dal marzo all’agosto del 1828 nell’Ospedale della Trinità di Napoli. A essa segue, l’anno successivo, una prima sperimentazione controllata. Quest’ultima, condotta sotto l’oculata sorveglianza di una commissione mista di medici, smentisce i successi pubblicizzati da De Horatiis in assenza di controllo.
L’omeopatia al banco di prova
Di fronte agli esiti negativi della sperimentazione napoletana, delle successive sperimentazioni controllate di Parigi (1834) e della clinica omeopatica di Lipsia (1837-1838), si accentua la diffidenza degli esponenti della comunità scientifica italiana nei riguardi della presunta efficacia dell’omeopatia e dei suoi fondamenti teorici. A eccezione di alcune aperture, si susseguono numerose critiche nei confronti delle diluizioni centesimali, spesso ridicolizzate, e nei confronti del metodo di lavoro seguito dagli omeopati. I successi vantati da questi ultimi si fondano, come sottolineato dal medico Giuseppe Ferrario, su «pochi fatti individuali privati, non generali sulle masse degli infermi, né dimostrati genuini coll’appoggio di tavole statistiche giornaliere, settimanali, mensili ed annuali».
Nel contesto dei Congressi preunitari l’omeopatia riceve il suo primo rifiuto ufficiale. Infatti, la sesta riunione degli scienziati italiani, svoltasi a Milano nel 1844, rigetta l’omeopatia e la definisce non scientifica. Una chiusura analoga verso la nuova pratica medica si ripete a Napoli nel 1845.
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La medicina nell’Ottocento tra limiti terapeutici e conoscitivi
Nonostante la solida consapevolezza mostrata dai medici italiani nei confronti dei limiti teorici e pratici dell’omeopatia, essa continuerà a espandersi nella penisola, trovando appoggio da parte di famiglie aristocratiche e ceti popolari. La sua ampia diffusione può essere compresa solo tenendo conto di una molteplicità di fattori.
Da una parte, i limiti della terapeutica allora praticata creano forti diffidenze verso la classe medica, alimentando il ricorso a rimedi alternativi a quelli della medicina ufficiale. In particolare, nel contesto medico italiano del diciannovesimo secolo, è ancora ampiamente in uso il salasso, un metodo dissanguante invasivo e dannoso, rispetto al quale i preparati omeopatici risultano ben più allettanti.
D’altra parte, i concetti di atomo e molecola, alla base della moderna chimica, si affermeranno solo a partire dal 1860, in seguito al Congresso Internazionale dei chimici di Karlsruhe. Se oggi, basandoci sulla costante di Avogadro, possiamo affermare con certezza che all’interno dei preparati omeopatici oltre la dodicesima diluizione non rimane nulla, lo stesso non potevano fare i medici della prima metà dell’Ottocento.
L’arrivo del colera
L’espansione dell’omeopatia è quindi favorita da alcuni limiti oggettivi (conoscitivi e terapeutici) della medicina accademica, che risultano ancor più evidenti in occasione delle ondate epidemiche di colera. La mancanza di conoscenze circa le cause e i meccanismi di diffusione del morbo genera disorientamento sui rimedi più opportuni da adottare per contrastarlo. Per questo motivo, di fronte all’uso fallimentare di salassi, purganti e vomitivi, le pratiche scarsamente invasive degli omeopati trovano ulteriore diffusione e nuovi riconoscimenti. In particolare, nel 1854, prima a Napoli e poi a Palermo, sono oggetto di sperimentazione non controllata i rimedi a base di canfora, ampiamente utilizzati sia per prevenire il morbo che per combatterlo nelle fasi più acute.
I risultati pubblicati dagli omeopati in questa fase appaiono strabilianti, soprattutto se confrontati con quelli dei medici tradizionali. Mentre nel primo caso la mortalità non arriva al 10%, nel secondo raggiunge picchi del 50-70%. Tuttavia, è necessario avanzare alcune osservazioni su queste statistiche. In primo luogo esse raccolgono i risultati dell’attività privata, quindi non controllata, dei medici omeopati. In secondo luogo, sono prive di qualsiasi riferimento in merito alla tipologia di cura utilizzata (che variava frequentemente da medico a medico) e alle casistiche affrontate. A questi aspetti occorre aggiungere, poi, un ulteriore elemento: l’assenza di diluizioni nell’uso della canfora. Quest’ultimo fattore genera un acceso dibattito tra medici ortodossi e omeopati, accusati dai primi di essere venuti completamente meno alle prescrizioni di Hahnemann.
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Smentite e nuovi riconoscimenti
Ad ogni modo, con l’unificazione del Paese e un conseguente rinnovamento culturale, politico, istituzionale e didattico, la gestione del bene salute viene riorganizzata e affidata a mani competenti. Le numerose richieste di riconoscimento avanzate in Parlamento dagli omeopati non vengono accolte e la medicina omeopatica cade in un vuoto normativo. Il ridimensionamento dell’omeopatia sul finire del diciannovesimo secolo è dovuto, oltretutto, alla nascita e allo sviluppo della medicina scientifica, in grado per la prima volta di fornire rimedi realmente efficaci contro le malattie.
Delle numerose smentite ricevute dalla medicina omeopatica nel corso del tempo non sembra tener conto l’attuale legislazione, che, a livello europeo, ha equiparato i preparati omeopatici a veri e propri medicinali, consentendo loro di godere di uno statuto giuridico d’eccezione. Per essere immessi in commercio, infatti, ai medicinali omeopatici non viene richiesta alcuna prova di efficacia terapeutica (si parla di registrazione semplificata). Analogamente, in Italia, la FNOMCeO ha definito l’omeopatia, nel documento di Terni del 2002, “atto medico”. L’equiparazione dell’omeopatia a vera e propria medicina e dei suoi preparati a medicinali ha aperto le porte a sempre più frequenti richieste d’integrazione del controverso metodo terapeutico all’interno del Sistema Sanitario Nazionale.
Storia e medicina: un connubio vantaggioso
Sono numerose le problematiche etiche che scaturiscono dalla presenza di pratiche non fondate scientificamente all’interno della sanità e dall’attuale regolamentazione che crea confusione nel paziente, non tutelando realmente il principio dell’autonomia in campo terapeutico. Alla luce di questa situazione, la prospettiva storica adottata può gettar luce sulla natura dell’omeopatia, sul contesto in cui essa è nata e sulle ragioni alla base della sua sopravvivenza, oltre a chiarirne le differenze con la medicina scientifica e il metodo da essa seguito. Lo scopo ultimo rimane quello di rendere le conoscenze storiche strumento utile per muoversi nella società odierna, promuovendo la comprensione di un fenomeno ancora ampiamente presente al suo interno.