Lo scorso 6 gennaio, mentre una folla di sostenitori di Donald Trump istigati da un comizio invadeva il Congresso degli Stati Uniti, il presidente ha preso il suo cellulare e ha twittato, alle 22.37 ora italiana, un video. Nel suo messaggio, Trump invitava i rivoltosi ad andare a casa, affermava che l’elezione gli fosse stata “rubata” ed esprimeva la sua vicinanza: «I know your pain, I know you’re hurt. […] We love you. You are very special». Lo stesso messaggio è stato subito pubblicato sulla sua pagina Facebook. Più tardi, alle 00.01 ora italiana, quando la situazione si stava calmando e già si sapeva che c’era stata una morte, in un secondo tweet Trump ha scritto che «These are the things and events that happen when a sacred landslide victory is […] stripped away from great patriots. […] Remember this day forever!»
Inizialmente, Twitter ha aggiunto alcune righe in calce ai tweet, dove si riportava che le affermazioni di frode elettorale erano “contestate” (disputed), e ha impedito di rispondere, di mettere like e di condividere senza commento il tweet (retweet), mentre è rimasto possibile condividerlo con un commento (quote retweet). Dopodiché, Facebook ha rimosso il video e Twitter ha fatto altrettanto. L’8 gennaio, Twitter ha definitivamente sospeso l’account di Trump.
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I messaggi sui social prima del 6 gennaio
Nei giorni precedenti al 6 gennaio, messaggi che organizzavano e istigavano la rivolta erano presenti ovunque sui social media: su Facebook, nei numerosi gruppi “Stop the Steal” e su Twitter, pubblicati dai vari account anonimi che promuovono la teoria QAnon, e poi nel folto sottobosco dei canali Telegram, nei video su TikTok, nei forum pubblici del network Parler. L’assalto a Capitol Hill è stata un’azione preparata e resa possibile dai social media, grazie anche ai messaggi di Trump. Anzi, in qualche misura è stata un’azione pensata apposta per i social media. Lo dimostrano l’allegra disinvoltura con cui i rivoltosi si fotografavano all’interno del Congresso, senza fare vandalismi significativi e senza cercare veramente lo scontro con i parlamentari nascosti nei loro uffici.
E insomma, i miliardari Mark Zuckerberg e Jack Dorsey, rispettivamente CEO di Facebook e Twitter, hanno fatto bene a sospendere l’account del Presidente degli Stati Uniti? Il dibattito è aperto ed entrambe le parti hanno buone argomentazioni. In Italia e in Europa sembra esserci più preoccupazione per questa dimostrazione di potere da parte dei social network, come ha scritto per esempio il professore e ricercatore Stefano Epifani. Negli Stati Uniti invece l’opinione prevalente sembra essere la critica per non aver agito prima o comunque il sostegno a questa scelta, come scritto dal professore e computer scientist Alex Stamos.
Avviso ai naviganti: il fatto che le piattaforme abbiano deciso che @realDonaldTrump debba essere oscurato può far piacere visto il personaggio, ma NON È AFFATTO una buona notizia, nè un bel segnale per lo stato di salute della Rete. Ed ora dovremo riflettere sui pericoli reali.
— Stefano Epifani (@stefanoepifani) January 7, 2021
https://twitter.com/alexstamos/status/1346932573235077121
Il ban di Trump: pro o contro?
L’argomento principale di chi è contrario al ban di Donald Trump è il principio della libertà di espressione, diritto cruciale di una società democratica e riconosciuto, per esempio, dal Primo Emendamento della costituzione americana e dalll’articolo 21 della Costituzione italiana. Internet stesso è nato con idealistici propositi di dare una voce a chiunque lo desiderasse. «The long journey towards greater progress requires confronting ideas that challenge us» ha affermato Mark Zuckerberg in un importante discorso alla Georgetown University nel 2019. Per questo motivo, le piattaforme avevano originariamente scelto di non “arbitrare” quanto pubblicato al loro interno, cioè di essere una semplice arena per il confronto tra opinioni diverse. C’erano anche motivi più pragmatici, ovviamente. Così facendo non era necessario formare e stipendiare un gran numero di moderatori, e non era nemmeno necessario investire tempo e risorse per capire cosa bannare e cosa no. Inoltre, secondo la nota Section 230 della legge statunitense, in questo modo le piattaforme non erano legalmente responsabili di quello che gli utenti scrivono – al contrario dei giornali, la cui direzione ha responsabilità legali per quanto scrivono i loro redattori.
Negli anni, però, è emerso sempre più chiaramente che la struttura stessa dei social network favoriva la nascita e la diffusione rapidissima di teorie del complotto, di notizie false, frodi, opinioni razziste e violente, e di impulsi alla radicalizzazione. Sono presto nate le prime strutture di moderazione e sono stati ideati vari accorgimenti per rallentare la corsa di certi contenuti virali. Al tempo stesso, i social network sono diventati sempre più importanti per il “discorso pubblico”. Più che il freedom of speech, è diventato chiaro che in quest’era dell’informazione a essere rilevante è il freedom of reach, cioè quanto lontano arrivano i contenuti e le idee quando vengono rimbalzati in giro per la rete. I social network, che funzionano grazie alla diffusione algoritmica dei contenuti, sono in grado di regolare facilmente, come un rubinetto, la freedom of reach dei loro utenti.
A questo punto va rilevata una contraddizione nell’argomento che i social media devono garantire libertà d’espressione. O meglio, un punto poco chiaro. I social media sono aziende private a cui privati cittadini si iscrivono liberamente e liberalmente scelgono di sottostare alle loro regole. Dal punto di vista legale, al momento le piattaforme sono libere di bloccare i propri utenti e di controllarne i contenuti. E quindi non è chiaro cosa stiamo chiedendo. Stiamo chiedendo che gli utenti vengano protetti dalla legge, o semplicemente che le piattaforme smettano di moderare, pena un nostro sabotaggio? Vogliamo che sia illegale negare la parola ai nostri leader politici, o stiamo lamentando che un servizio offerto dalle piattaforme non è di nostro gradimento e potremmo passare alla concorrenza? È fattibile “passare alla concorrenza”, cioè cercare di spostare parte del dibattito pubblico su un altro social network, e quale può essere la concorrenza? Questo non sempre è chiaro.
Passando dall’altra parte del dibattito, l’argomento principale di chi è favorevole al ban è che le parole del Presidente Trump, oltre a essere state più volte in passato il punto di riferimento per una rete di sostenitori che hanno violato ripetutamente le regole adottate dei social network e che hanno infine violato la legge, sono a questo punto parole di sovversione rispetto all’ordine democratico. Non si tratta cioè di un’opinione come le altre, che riconosce il punto di vista altrui e accetta un confronto di persuasione e basato sui fatti. La libertà di espressione, si argomenta, è garantita in virtù dell’ordine costituzionale e può essere negata se questo può proteggerlo. Nel contesto della rivolta del 6 gennaio, in particolare, c’era un rischio reale che le parole del Presidente Trump guidassero le azioni della torma ribelle. Dato l’isolamento politico di Trump, era impossibile che un colpo di Stato avesse effettivamente successo, ma rimanevano possibili e plausibili atti di vandalismo, atti simboli di catarsi, atti di violenza, simbolici e reali, e atti di terrorismo. Questa del resto è stata la giustificazione ufficiale dietro alle scelte di Facebook e Twitter. Di fronte al rischio concreto che quelle parole provocassero morte e violenza, di fronte a informazioni incomplete e incertezza, hanno scelto di togliere la parola al Presidente.
Chi ha ragione?
Chi ha ragione, dunque? L’opinione che questo articolo appoggia è che i social network hanno fatto bene. La gravità della circostanza giustifica il ban di Trump, che non è nemmeno la notizia più importante tra tutte quelle collaterali agli eventi del 6 gennaio. Inoltre, il fatto che i social network avessero il potere di dare e togliere la parola arbitrariamente era già chiaro: l’hanno solo esercitato su una scala mai sperimentata prima, e con tutte le giuste motivazioni del caso. Questo non toglie che troppo potere è concentrato nelle mani di un piccolo gruppo di persone, in particolare nelle mani di Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, Inc., cioè di Facebook, di WhatsApp e di Instagram. Qualcosa deve essere fatto per cambiare la situazione. O il pubblico deve dettare le regole dei social network, o bisogna intervenire nel mercato del social network per contrastare i vari monopoli che si stanno creando, e quindi determinare un nuovo regime di più libera concorrenza.
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