«La città è stata testimone di tutto ciò che è accaduto sulla terra, ed è ancora qui. Ha posato lo sguardo sulle ossa rinsecchite di mille imperi e prima di morire vedrà le tombe di altri mille. Anche se un’altra reclama il suo nome, solo l’antica Damasco è di diritto la Città Eterna». Mark Twain scrisse queste parole per immortalare la capitale siriana nel suo Gli innocenti all’estero. Era il 1869 quando quelle parole vennero incise su carta: il mondo e i suoi equilibri sono cambiati, e con esso anche la Siria. Dal 2011 è flagellata da una guerra civile senza fine, i morti sono centinaia di migliaia.
Il Syrian Observatory for Human Rights, organo umanitario occupato nella documentazione di violazioni dei diritti umani durante il conflitto, in un report pubblicato il 9 dicembre dello scorso anno, stima il numero delle vittime tra le 383.000 e le 593.000, più di 22.000 bambini e quasi 14.000 donne. Il loro sangue macchia le strade delle città siriane in quello che sarà il decimo anniversario dello scoppio di questa guerra. Una popolazione oppressa sia dal regime del presidente Bashar al-Assad che dai molteplici gruppi ribelli e fondamentalisti che compongono la sfaccettata galassia delle fazioni in guerra per il predominio sulla nazione siriana. Di pochi giorni fa la notizia della nascita di un nuovo gruppo jihadista emerso nella provincia di Idlib: Abdullah bin Unais Group, forse collegato a Ansar Abu Bakr al-Siddiq, fazione nata la scorsa estate.
Di Damasco ora rimangono ricordi della sua gloria passata. Interi quartieri sono stati livellati dall’artiglieria dei ribelli e dalle barrel bomb del regime, il sistema sanitario è collassato, l’attuale pandemia di Covid-19 è stato l’ennesimo coltello nella piaga, elettricità e servizi sono razionati ma comunque insufficienti. Nel governatorato della Laodicea è stato recentemente intrapreso un progetto per la costruzione di una nuova centrale elettrica, capace di produrre 540 megawatt, dal costo di 400 milioni di euro, finanziata dalla società iraniana Mabna Group, attiva nel settore energetico.
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Chadi, dalla guerra civile in Siria all’Italia
Ma c’è ancora speranza, c’è voglia di ricostruire e di ricominciare da zero con un nuovo governo a guida del Paese. C’è la storia di Chadi, 44 anni, rifugiato siriano ora in Italia. Aveva 39 anni quando ha deciso di rischiare tutto e fuggire dalla sua terra natale, alla ricerca di un futuro migliore per sé e la sua famiglia. L’ha trovato. Ora lavora in un ristorante, il MaTe della piccola cittadina di Treviglio, al centro della Lombardia: si occupa di preparare gli impasti di pane e pizze e della loro cottura.
«Sono arrivato in Italia nel settembre del 2015, l’anno culmine per le migrazioni delle migliaia di profughi siriani che fuggivano dalla guerra. La prima tappa è stata Bologna, dove ho fatto richiesta di asilo» racconta Chadi. Non è stato un percorso svolto in solitaria: al suo fianco le forze della parrocchia. Chadi è cristiano, un piccolo tassello di quello che è il mosaico delle religioni presenti in Siria. La comunità parrocchiale lo ha aiutato a trovare una casa e un lavoro.
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Siria, Libano, Turchia, Grecia, Italia
Il suo percorso inizia abbandonando i suoi affetti per puntare verso il Libano. «Da lì sono riuscito a imbarcarmi su una nave diretta in Turchia, dopo aver aspettato dodici ore. Le autorità non volevano farci partire». Dalle coste turche la successiva traversata del Mar Mediterraneo, un vero viaggio della speranza verso la Grecia. «Il gommone su cui eravamo trasportati ha avuto un’avaria al motore, siamo rimasti bloccati tra le onde di un mare in tempesta. Abbiamo rischiato di annegare» ricorda. Poi, in maniera del tutto inaspettata, è arrivato il salvataggio. «Una ragazza con il fidanzato in Olanda lo ha chiamato. Lui, non so come, è riuscito a mettersi in contatto con le autorità greche che si sono mosse per venirci a recuperare».
Dopo l’arrivo sulla terraferma, lui e i suoi compagni sono stati scaricati in uno dei tanti campi profughi passati poi sotti i riflettori della cronaca per le condizioni cui i rifugiati erano costretti a vivere. Poi l’opportunità per andarsene e giungere in Italia. «Questo Paese ha sempre avuto un posto speciale nel mio cuore, ero venuto a visitarlo anni fa. Conoscevo un poco di italiano, a Bologna l’ho migliorato. Non cambierei il popolo italiano con nessun altro» continua il cuoco.
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Chadi in Italia: da Bologna a Treviglio
Da Bologna l’ultima tratta del viaggio che lo ha visto giungere a Treviglio, grazie al fortuito incontro con una suora che l’ha seguito e aiutato a inserirsi nel panorama cittadino. Treviglio è una tipica cittadina della provincia di Bergamo. Poco più di trentamila abitanti, costellata da piccole aziende manufatturiere, il polo lavorativo più importante è quello costituito da Same-Deutz Fahr, attiva nella produzione di macchine agricole. La cerchia interna vede un susseguirsi di botteghe, bar, ristoranti. In uno di questi lavora Chadi.
«All’inizio non è stato facile inserirsi in un contesto completamente differente dal mio. Ho avuto modo di conoscere il mio capo e lentamente ci siamo avvicinati. Ora è mio amico. Viene a cena da me, mi chiede come sto e se va tutto bene. La conoscenza reciproca ha permesso tutto ciò». La comunità parrocchiale lo ha aiutato anche nel compilare le carte necessarie a farlo ricongiungere con la sua famiglia, che nel 2017 è giunta in Italia.
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La situazione in Siria
Una parte della sua famiglia è però rimasta in Siria: i suoi genitori, troppo anziani per affrontare il viaggio, e i suoi fratelli. Riceve sporadiche telefonate dalla madre che risiede con il marito nella provincia di Idlib. Si recano a casa di un’amica di famiglia e utilizzano la rete telefonica turca per chiamarlo, riescono a farlo data la loro vicinanza con il confine. «La provincia di Idlib è maledetta». Dallo scoppio della guerra è diventato uno dei principali luoghi di scontro tra gruppi ribelli ed esercito regolare.
«Il luogo da cui provengo è composto da tre villaggi di cristiani. Mia madre è ortodossa, mia moglie maronita. L’esercito fedele ad Assad, pur non avendo posto restrizioni di fede, una volta giunti i ribelli si è ritirato. Da quel momento è iniziata l’oppressione. Hanno distrutto le statue e imposto il loro credo. Poi è arrivato l’Isis, e con il califfato i missili del regime» ricorda Chadi. I fratelli vivono ad Aleppo, ma la situazione non è certo migliore. Se la guerra è riuscita a evadere dalle mura cittadine delle maggiori città siriane, non è comunque scomparsa.
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Le conseguenze della guerra civile in Siria
Si combatte nelle campagne e nelle province circostanti. Qualsiasi sembianza di apparato statale è stata demolita dalle bombe, l’economia siriana è in macerie. Il cambio è di circa 2500 lire siriane per fare un dollaro americano. Il tasso di inflazione a giugno 2020 era del 25,5%. Prima della guerra un impiegato governativo guadagnava circa 35.000 lire siriane: il costo medio per acquistare un chilo di carne è di 17.000 lire siriane. Ad Aleppo mancano elettricità, riscaldamento e gasolio. L’energia elettrica arriva per un paio d’ore al giorno: quando non accade la popolazione si trova costretta ad acquistare quella prodotta dai generatori, spesso a prezzi esorbitanti.
Il mercato del lavoro è stato spazzato via dalla guerra, non ci sono più attività da svolgere: i pochi fortunati guadagnano appena per potersi permettere del cibo. Secondo i dati raccolti dal World Food Programme sarebbero undici milioni i siriani in necessità immediata di aiuti e protezione. A dare il colpo di grazia a questa nazione già martoriata è stata la pandemia da Covid-19. Il già fragile sistema sanitario è collassato e i contagi non possono essere tracciati con sicurezza. I dati ufficiali riportano, nel momento in cui scriviamo, poco più di 12.000 contagi a fronte di 790 morti. Cifre dubbie, troppo contenuto il numero di infetti viste le condizioni in cui giace il Paese, una caratteristica che accomuna i regimi autoritari.
«Ad Assad non interessa più nulla della popolazione, se anche venisse deposto difficilmente cambierebbe la situazione. Ci vorrebbe un accordo sovranazionale per instaurare una pace duratura, non vorrei che il mio Paese diventasse un secondo Iraq» conclude il trevigliese d’adozione. Esiste la possibilità di una rinascita per la Siria, ma è necessario un cambiamento politico e legale.
Ad oggi le tempistiche sono totalmente ignote, la pandemia sembra aver diminuito la frequenza degli scontri, ma le fazioni ribelli sono ancora attive e portano avanti una lotta intestina per il predominio sul territorio. Atlas News riporta come Hay’at Tahrir al-Sham, milizia sunnita, continui a condurre azioni militari contro il frammentato, ma ancora presente, fronte dello Stato Islamico. Ciò che serve ora alla Siria è un termine generale delle ostilità, la firma di un trattato di pace tra le nazioni coinvolte e l’inizio di una concreta ricostruzione, a partire dalla deposizione del presidente Bashar al-Assad e da conseguenti elezioni democratiche.