Leggendo Le vite che nessuno vede della giornalista e reporter brasiliana Eliane Brum sembra di ascoltare la Smisurata preghiera di Fabrizio De André, testamento artistico del cantautore genovese – ultimo brano dell’ultimo suo disco di inediti. Cifra di una ricerca musicale e di una scrittura letteraria giocata sul confine delle manie, delle nevrosi e dei fantasmi che ossessionano ognuno di noi. Tra rimozioni collettive, bieche ipocrisie sociali e piccoli istanti di luminosa epifania che si accendono momentanei nelle turpitudini più grandi e scivolano via inesorabili nel lento fluire del nostro piccolo-borghese asserire e sorridere, e guardare sempre dall’altra parte.
Le immagini nitide e impeccabili delineate da Brum si susseguono lungo il filo di una scrittura tesa tra iperrealismo allucinato, lirismo patetico e montaggio serrato. Con questo libro l’autrice getta uno sguardo lucido e un grido di denuncia sulle malattie e i vizi che pervadono il Brasile dalla fine degli anni Novanta agli inizi del nuovo millennio. E mentre ci lasciamo scortare nell’intricato groviglio di megalopoli urbane o nell’esuberanza della natura amazzonica, ritroviamo un mondo che è anche il nostro mondo. Fatto delle stesse piccole meschinità e degli stessi abissi di sofferenza. E nel frattempo, «alta sui naufragi / dai belvedere delle torri / china e distante sugli elementi del disastro / […] la maggioranza sta, la maggioranza sta».
Le vite che nessuno vede: la favela cento metri un po’ più in là
Le vite che nessuno vede (edito Sellerio) è il primo libro di Eliane Brum tradotto in Italia. Raccoglie diciassette reportage scritti dalla giornalista tra il 1999 e il 2015. Brum (classe 1966) è nata nel sud del Brasile, a Ijuí, nello stato del Rio Grande do Sul. Dopo aver scritto per più di vent’anni in giornali brasiliani (come la rivista Época), da dieci anni è tra le più note reporter freelance brasiliane, collaborando con El País, The Guardian e Internazionale.
I suoi interessi principali sono le periferie urbane e l’Amazzonia. Universi agli antipodi che sembrano accomunati dalla stessa assenza di giurisdizione e dall’instabilità dei loro confini, che, a seconda dei casi e degli interessi in gioco, sono sempre un po’ più in là o un po’ più in qua. Domandando ad alcuni abitanti di Brasilândia, quartiere nord di San Paolo, dove iniziasse precisamente la favela, Brum scopre che «si trovava sempre un po’ più in là. Chiedevo: “Dove comincia la favela?”. E ognuno mi indicava un centinaio di metri più avanti. Andavo fin lì e domandavo a qualcun altro davanti alla sua casa: “È qui la favela?”. Non era mai lì. La favela restava – sempre – cento metri più avanti» (p. 29).
Varcare questa soglia significa, allora, sconvolgere le quotidiane visioni che abbiamo del mondo, scontrarsi con l’altro in tutta la sua disarmante crudeltà. Per poco più di duecentoquaranta pagine rimaniamo come in sospeso, ascoltando la schiera di respinti ed emarginati che Brum riversa nelle sue pagine precise e velenose. Una prosa che sembra restituirci un caleidoscopio d’umanità in malora, alla deriva, sconfitta, con lo stupore e la paura che quello che chiamiamo altrove si trovi soltanto un centinaio di metri un po’ più in là.
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Gli “inaccadimenti” e l’essenza di un giornalismo ai margini della società
“Inaccadimento” è l’espressione coniata da Brum per sintetizzare l’essenza del suo giornalismo. Per ridare vita, attraverso alle parole, a coloro che sembravano non averne avuto diritto. «Resistere all’addomesticamento dello sguardo per trovare la singolarità della vita di ciascuno: era questo il filo che cuciva ognuno di quei piccoli reportage. Il contenuto politico di quegli “inaccadimentiW, termine che ho inventato per descrivere il mio modo di fare giornalismo, sta nel fatto che nessuno è sostituibile. […] Voglio raccontare un “inaccadimentoW perché esso possa accadere. La nostra vita è la nostra prima narrazione» (p. 15).
Le vite che nessuno vede sono quindi un impressionante affresco umano. Brum ci restituisce attraverso la scrittura la vita che sembrava perduta, narrando le vicende di donne e di uomini che sembrano uscire dalla fucina di un romanziere o dalle immagini di una serie tv. Troppo reali per essere vere: resistono, fanno a pugni con il naturale impulso a edulcorare la nostra vita per renderla sopportabile. Appesi al filo della memoria (e della scrittura) troviamo un elenco di persone ai margini della società: prostitute, criminali, vecchi abbandonati, lavoratori sfruttati e malati terminali traditi dal futuro che gli era stato promesso. E poi ancora gli abitanti dalla foresta amazzonica, i cercatori d’oro e le anziane levatrici depositarie di saperi arcaici.
Nei suoi reportage Brum rincorre la linea sottile che sta sotto i rivolgimenti della recente storia brasiliana, i retroscena, la parola perduta che ritorna come una nevrosi: «La gelosia, il senso di impotenza, il timore di essere fuori tempo, l’ansia di essere riconosciuto, la sensazione di invecchiare e di rimanere indietro. Piccole cose che provocano grandi ecatombi» (p. 18). Una scrittura sofferta, che nasce dall’incontro con una sofferenza attraversata in ogni sua forma, fino alle più estreme e personali.
Nelle viscere di un Brasile che è tanti “Brasili”
Le storie raccolte ne Le vite che nessuno vede ci fanno entrare con fervore icastico nel mondo plurale di un Paese immenso e contraddittorio. Un Brasile che è mille Brasili tenuti insieme per miracolo, tra le prospettive di rilanci economici e i reflussi della miseria. Ci sono le levatrici che attraversano i fiumi amazzonici per far nascere i figli della foresta e confortare le puerpere con decotti di erbe e magiche cantilene sussurrate al vento. Artigiane di una pratica millenaria, hanno la loro filosofia scritta nel ventre antico della crudele foresta: «In questo abisso di morte, o riempiamo il mondo di figli oppure scompariamo» (p. 39)
Troviamo i gaúchos solitari della pampa brasileña, la «vertigine orizzontale della pianura» (p. 52) che domina il sud del Paese, incuneata tra Uruguay, Paraguay e Argentina. E poi ancora il microcosmo delle favelas, che crescono nelle periferie dei folli agglomerati urbani di Rio e San Paolo, innalzandosi verso il cielo come precarie torri di Babele pronte a crollare da un momento all’altro. Dove l’amore (di una madre, di una coppia di fidanzati, o di due cani randagi) si scontra quotidianamente con la criminalità delle bande di narcotrafficanti e la violenza della polizia corrotta.
C’è il Brasile dei garimpeiros, gli avidi e febbricitanti cercatori d’oro che si riversano nelle viscere dell’Amazzonia e dei suoi fiumi imponenti sottraendo porzioni di foresta, in un’interminabile e illegale corsa all’oro. Disperati che scavano nel fango con gli occhi sprizzati del giallo colore dell’oro e della malaria. Esausti e inspiegabilmente ottimisti, nonostante la corruzione dilagante che osteggia questa terra di tutti e di nessuno: «Non ci sono limiti all’imprenditoria rivolta a strappare ai minatori l’oro che, a loro volta, essi strappano alla terra» (pp. 103-104). E interrogati, rispondono: «Io adoro questo fango, questo casino, questa folla. Non è uno sballo?» (p. 108).
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Oltre gli stereotipi
Ma oltre ai comuni stereotipi che l’Europa da sempre proietta sul Brasile (e su tutta l’America Latina), si diramano le vite e le storie più intense raccontate da Brum nel suo libro. Le vite che nessuno vede ci ricorda con fastidio e rassegnazione che l’io è l’altro, e l’altrove è sempre più vicino di quanto siamo portati comunemente a pensare. Come la storia di T., operaio di una fabbrica di amianto di San Paolo destinato a morire per un mesotelioma che gli mangia il respiro, e che Brum paragona alla storia di Romana Blasotti Pavesi, «l’anziana signora di Casale Monferrato, città italiana contaminata dall’amianto, che aveva perso il marito e la figlia per un mesotelioma» (p. 68).
O la storia di Eva, che affronta con dignità e orgoglio le sfide che deve subire ogni giorno perché «era negra: una disgrazia. Era povera: una disgrazia. E, come se non bastasse, era nata da un parto complicato. Aveva una paralisi cerebrale» (p. 85). Troviamo poi le storie degli anziani soli, chiusi tra le mura di una casa di riposo di Rio. Abbandonati dalle famiglie, bloccati in un tempo che li ha superati, rimangono in attesa, tra malattie, acciacchi e piccole gioie quotidiane. La terapia di un amore tardivo: due vecchi «intrecciano da anni una love story fatta di sussurri, nel timore di offendere il piccolo mondo in cui vivono di carità» (p. 134).
C’è infine la storia di Ailce: cuoca di una mensa scolastica per tutta la vita, si ammala di cancro pochi giorni dopo il pensionamento. La tragica e ironica ineluttabilità della vita: «Ho passato tutta la vita a timbrare il cartellino, avevo un orario per tutto. Quando sono andata in pensione, mi sono tolta l’orologio e l’ho messo via. Ero finalmente libera. A quel punto è arrivata la malattia. Quando ho avuto tempo, ho scoperto che il tempo era finito» (p. 222).
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Le vite che nessuno vede: mosaico di varia umanità
I reportage di Brum scorrono fluviali in una polifonia di voci che si avvicendano in un montaggio cinematografico. Il racconto procede veloce, mentre lo sguardo si sposta velocemente focalizzandosi di volta in volta su una miriade di persone diverse. Ognuno con il proprio passato e la propria storia, un vissuto in bilico tra la paura di essere dimentico e il timore di essere travisato. L’autrice ci accompagna in queste discesa negli anfratti invisibili del popolo brasiliano: un carosello impietoso dove un mosaico di varia umanità reclama il suo posto nel mondo. Domande in cerca di risposte, risposte in cerca di domande.
Troviamo – a un certo punto della lettura – la descrizione dello zoo di Sapucaia do Sul, vicino a Porto Alegre. Il paragone sembra scattare automatico. «Ci sono due maniere di visitare uno zoo: con uno sguardo innocente o senza. La prima è la più facile ed è l’unica con una soddisfazione garantita. L’altra può diventare un penoso viaggio attraverso uno specchio. Senza divertimento, e anche senza ritorno» (p. 219).
Tra i reietti e i vinti c’è ancora qualcuno che resiste, brevi tentativi di reazione alle ingiustizie sociali, ai tiri mancini della sorte. Il labirinto che si dirama in Le vite che nessuno vede è cupo e disperato, ma brillano ancora piccoli bagliori di bellezza, rari momenti di felicità. Attimi dove si riaccende una fiamma: una strada da seguire. E ancora, con De André, «per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale di speciale disperazione / e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità, di verità».