«Il teatro Ariston di Sanremo è un teatro come tutti gli altri e quindi, come ha chiarito il ministro Roberto Speranza, il pubblico, pagante, gratuito o di figuranti, potrà tornare solo quando le norme lo consentiranno per tutti i teatri e cinema. Speriamo il più presto possibile».
Con questo tweet il ministro Dario Franceschini cerca di mettere un punto alla questione del festival di Sanremo in presenza, dopo che la Rai aveva assicurato, nei giorni scorsi, lo svolgimento dello show con il pubblico in sala. La Rai era stata sommersa di critiche seguite all’annuncio che il Festival di Sanremo 2021 si sarebbe tenuto alla presenza del pubblico. Un annuncio che, con teatri, cinema e sale da concerto ancora chiuse fino a data da destinarsi e senza la minima prospettiva di riapertura, suonava come una beffa. A gettare benzina sul fuoco le dichiarazioni al Corriere della Sera di Amadeus, che ha ipotizzato di lasciare conduzione e direzione artistica del festival se venisse negata la presenza del pubblico .
Dobbiamo offrire al pubblico a casa e agli artisti che sono sul palco la possibilità di avere uno spettacolo vero. Chi dice che il pubblico non serve fa un altro mestiere. Io non mi metto a sindacare di protocolli sanitari e mi affido al giudizio di tecnici ed esperti. Su come si fa uno spettacolo invece penso di avere l’esperienza per sapere come si realizza uno show così importante.
Che Amadeus sappia come funziona il mondo dello spettacolo non ci piove. Per questo le sue parole sono suonate doppiamente dolorose per un settore che non può contare sulla stessa copertura e risonanza mediatica del Festival di Sanremo. Uno spettacolo vero, sostiene Amadeus, prevede che il pubblico sia in sala. Lo diceva anche Peter Brook che il teatro si fa a condizione che ci sia qualcuno, in uno spazio definito, che si rivolge a qualcun altro.
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Privare il teatro, inteso come “arte” e come “spazio fisico”, di una delle sue componenti indispensabili significa non comprendere quanto questo patto di fiducia e reciproca necessità sia antico e inviolabile. Privilegiare spudoratamente la sopravvivenza e la manutenzione in essere del Festival di Sanremo a discapito delle migliaia di realtà che, in questo momento, stanno boccheggiando, sarebbe una vergogna.
Perché gli stessi protocolli sanitari, che la Rai assicura saranno applicati diligentemente all’Ariston, non possono valere per gli altri teatri, cinema, sale da concerto, spazi associativi sparsi in tutta Italia? Che cosa rende il teatro Ariston diverso dagli altri? Si tratta di una domanda retorica: la stessa cosa che rende il campionato di calcio diverso dalle partite al campetto o dagli incontri non professionistici. Il volume d’affari determina in maniera incontrovertibile una maggiore attenzione da parte del governo.
Ma anche in questo caso la contraddizione è evidente: minore il pubblico che affollava teatri e cinema, minore anche il rischio di contagio. Doppiamente minore, considerato che i protocolli sanitari che le sale avevano già messo in funzione nei mesi di timida riapertura avevano significato una drastica riduzione del pubblico. Riduzione del pubblico che, però, significa anche riduzione dei guadagni, e quindi del PIL che lo spettacolo porta in dote all’economia italiana. Dunque, siamo sempre là: chi porta meno soldi ha meno diritti.
Forse è presto per ipotizzare come sarà il mondo dello spettacolo dopo la pandemia, ma non serve essere veggenti per capire che sarà forse l’ultimo settore a tornare alla normalità. Una normalità che, in questo anno ormai quasi esatto di pandemia, non è stata negata ad altre realtà. L’edizione 2020 di Ballando con le Stelle si è svolta regolarmente e, se uno spettatore da casa fosse stato in coma fino a dieci minuti prima, non avrebbe notato differenze con le precedenti. Mascherine e distanziamento erano unico appannaggio di figure tecniche e di contorno allo show. L’assenza del pubblico unico segnale evidente che qualcosa era cambiato.
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Se i giudici di Ballando con le Stelle, come altri ospiti di programmi o le ballerine del Capodanno, erano esonerati dall’uso delle mascherine e dal rispetto del distanziamento sociale, così non è stato per i coristi e gli orchestrali della Fenice e del teatro la Scala. Nessuno invita alla disobbedienza civile, ci mancherebbe. Ma preferire così sfacciatamente un settore a un altro è un’ingiustizia inaccettabile da uno Stato che non è certo un genitore disfunzionale.
A prescindere dalle modalità con cui si svolgerà il festival e dall’epilogo di questa vicenda, che dimostra solo che nel nostro Paese esistono teatri più importanti di altri, lanciamo una proposta alla Rai. Dimostri nel concreto quello che, in nessun comunicato, si è mai preoccupata di dimostrare. Un minimo di interesse per realtà più sfortunate ma che rappresentano la vera linfa vitale della cultura in Italia. Destini i proventi del Festival di Sanremo 2021 a tutti i teatri, cinema, sale da concerto, circoli ricreativi e associazioni culturali che si trovano, o si troveranno presto, a un passo dalla chiusura.
Sappiamo che questa proposta, o provocazione, è pura utopia o meglio: un sogno. Ma qualcuno, che non serve certo nominare, diceva che, in fondo, siamo fatti proprio di quella roba là.