Il 6 gennaio scorso, mentre a Washington i trumpisti più accaniti occupavano il Campidoglio, tentando di mettere a tacere l’autoritaria e sovrana voce della democrazia, a Los Angeles accadeva l’ennesimo episodio di razzismo nei confronti di una donna nera. La ragazza venticinquenne, aggredita mentre camminava per strada, è stata circondata da un gruppo di suprematisti bianchi, insultata e picchiata davanti a tutti, al grido beffardo di «White Lives Matter!».
Uno slogan che, considerati i recentissimi trascorsi politico-sociali americani, somiglia più a una vile coltellata alle spalle che a un sagace gioco di parole, amaro come il silenzio dell’indifferenza che ha dominato la scena del pestaggio sino all’arrivo delle forze dell’ordine. La storia degli USA lo conferma: la piaga del razzismo è da sempre legata alla variegata eterogeneità etnica del continente, generata da una sintesi incompleta, sempre conflittuale, di varie popolazioni nel corso del tempo, a partire dall’epoca dei conquistadores, passando per la tratta degli schiavi africani nei campi di cotone del diciassettesimo secolo.
In questo contesto di precario equilibrio e nel clima di incertezza totale che al momento non risparmia nessuna nazione, si sono formati, in risposta ad alcuni gravi accaduti – il più celebre è senza dubbio l’uccisione da parte della polizia di Minneapolis del giovane afroamericano George Floyd lo scorso 25 maggio – dei movimenti di protesta contro le discriminazioni razziali, in seguito unificatisi sotto il leitmotiv Black Lives Matter.
Tali iniziative, pur avendo ricevuto in breve tempo un grande consenso anche oltreoceano, non sono le uniche nella storia contro al razzismo e alle ingiustizie sociali. Partendo da Nelson Mandela e dalla sua lotta contro l’Apartheid in Sudafrica, molteplici sono i personaggi che, anche nel Nuovo Continente, hanno combattuto per il riconoscimento dei pari diritti e delle pari opportunità alle minoranze etniche, spesso vessate e sottomesse. Da Rosa Parks a Martin Luther King, in tanti, con i loro esempi di vita, hanno scosso le coscienze e cambiato le menti, trasmettendo segnali tangibili di rispetto e integrazione.
Ciononostante, ci sono stati anche altri individui che, con mezzi e modalità differenti, hanno cercato di estirpare definitivamente la piaga razzista. Sicuramente una delle figure più discusse e controverse della recente storia americana è Malcolm X, poiché rappresenta l’altra faccia della medaglia della lotta alla discriminazione. Rispetto ai due attivisti succitati, egli non disdegnava affatto lo scontro armato per imporre la tanto desiderata parità sociale, ritenendo che fosse necessario essere in grado di difendersi psicologicamente, verbalmente e fisicamente, da una qualsivoglia offesa o sopruso.
Nato a Omaha (Nebraska) nel 1925, Malcolm Little si distinse sin da bambino per la sua intelligenza e per i suoi ottimi risultati nello studio, nonostante dovesse convivere con una situazione familiare a dir poco disastrata. Suo padre, prete battista, morì nel 1931, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore di sua madre, che da quel momento iniziò a soffrire di gravi crolli emotivi. Benché avesse terminato il suo ciclo di studi con brillante successo, abbandonò la scuola da ragazzo, quando il suo insegnante gli disse che l’avvocatura non era un obiettivo realistico per un negro. Vedendo il suo sogno infranto, Malcolm iniziò a vagabondare, accettando, ormai perdutosi d’animo, lavoretti occasionali. Dopo essersi trasferito a Harlem, principale quartiere etnico di New York, iniziò a praticare ogni sorta di attività illecita, dallo spaccio di sostanze stupefacenti al gioco d’azzardo.
Tale condotta lo portò a essere arrestato nel 1946, condannato a dieci anni di reclusione per furto, detenzione illegale di arma da fuoco e violazione di domicilio. Durante la sua permanenza in carcere entrò in contatto, tramite la mediazione del fratello Reginald, con la Nation of Islam (NOI), un gruppo di militanti afroamericani che rivendicava le origini islamiche dei discendenti degli schiavi africani deportati in America. Affascinato dal carisma e dalla personalità del leader del movimento Elijah Muhammad, si convertì all’Islam e cambiò il suo cognome in Malcolm X, rifiutando il nome che i padroni bianchi avevano imposto ai suoi avi. In merito a tale decisione, lo stesso Malcolm scrisse nella sua autobiografia: «Naturalmente avevo fatto domanda e fu durante questo periodo che ricevetti da Chicago [sede della NOI, N.d.R.] la mia “X”, simbolo tra noi muslims del vero nome africano che nessun negro ha mai conosciuto».
Una volta uscito di prigione per buona condotta nel 1950, cominciò a prendere parte ai comizi e, predicando la necessità di un cambiamento radicale nel modo di vivere la quotidianità, acquisì presto una grandissima visibilità, distaccandosi però dalle idee nonviolente dell’altro leader del movimento di protesta afroamericana, Martin Luther King. Le sue ambiguità caratteriali, le sua abilità oratorie e la fermezza con cui comunicava sue teorie – che talvolta rasentavano l’estremismo – lo resero amato e discusso in tutto il continente, conferendogli però, oltre ai molti estimatori, parecchi nemici anche all’interno della Nation Of Islam. Vari membri, tra cui anche Elijah Muhammad, erano infatti preoccupati della crescente popolarità di Malcolm e dell’enorme consenso che stava ottenendo.
Il 21 febbraio 1965, mentre stava tenendo un discorso a Harlem, Malcolm X fu assassinato con sette colpi di arma da fuoco. I mandanti, tutti appartenenti alla NOI, furono arrestati e condannati dopo un lungo e complesso processo. Un milione e mezzo di persone presero parte alle esequie, a testimonianza dell’importanza mediatica che aveva acquisito.
Strano, irremovibile nelle sue decisioni, a tratti dispotico. Sicuro delle sue teorie, Malcolm X morì a soli trentanove anni, mentre tentava di combattere il razzismo che lo aveva circondato sin dai primissimi istanti di vita, quel distorto concetto di disparità che aveva grandemente influenzato il suo operato.
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