A partire dal 4 gennaio 2020 molti utenti in giro per il mondo hanno ricevuto una notifica da parte di WhatsApp. Il messaggio informava sulla necessità di accettare l’aggiornamento dei termini e delle condizioni per continuare a utilizzare la piattaforma. Fino a qui non sembra esserci nulla di diverso rispetto a quello che succede con altre applicazioni per smartphone. Noi tutti, tendenzialmente, pur di continuare a usufruire di un servizio accettiamo le condizioni proposte in modo superficiale, spesso sorvolando sui termini appena sottoscritti. In questo caso, invece, allarmanti messaggi sul potenziale pericolo a cui si sarebbe andati incontro accettando le nuove condizioni di WhatsApp hanno cominciato a diffondersi all’interno delle chat. Ora, a distanza di qualche settimana, l’allarme sembra rientrato. Ma cosa è successo e, soprattutto, cosa succederà in seguito alla nuova informativa comunicata da WhatsApp?
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La notifica inviata da WhatsApp ai propri utenti riportava il seguente messaggio: «Toccando “accetto”, accetti i nuovi termini e l’informativa sulla privacy, che entreranno in vigore l’8 febbraio 2021. Dopo questa data, dovrai accettare questi aggiornamenti per continuare a utilizzare WhatsApp. Puoi anche visitare il centro assistenza se preferisci eliminare il tuo account e desideri ulteriori informazioni». Comunicazione abbastanza comune nel caso di applicazioni e servizi di aziende private. Bisogna tenere a mente, però, che WhatsApp conta il maggior numero di utenti al mondo (due miliardi di utenti attivi al mese). E che nel 2014 è stata acquistata da Facebook, già coinvolta in scandali riguardanti la protezione dei dati personali, come nel caso di Cambridge Analytics. Aggiungiamo il carattere unilaterale dell’aggiornamento e la maggiore sensibilità al tema della privacy da parte degli utenti: tutti questi fattori assieme hanno contribuito a far diffidare dei nuovi termini presentati.
Più nello specifico, l’aggiornamento ha riguardato in primo luogo la privacy e la protezione dei dati personali. Come twittato dalla direttrice per la policy WhatsApp dell’area Emea (Europa, Medioriente e Africa), Niamh Sweeney, la piattaforma ha voluto dimostrare maggior trasparenza fornendo informazioni più chiare e dettagliate ai propri utenti su come vengono utilizzati i loro dati. Il secondo aspetto riguarda la possibilità di fornire un contatto diretto tra aziende e iscritti alla piattaforma. Le prime potranno vendere i propri prodotti e servizi direttamente su WhatsApp agli utenti, in qualità di potenziali clienti. Come puntualizzato dall’azienda, questo tipo di interazione è totalmente facoltativa anche se, precisa poi, in futuro saranno sempre di più gli utenti che usufruiranno di questo servizio.
Tralasciando le ipotesi più strane e tendenziose, gli aspetti più preoccupanti per gli utenti riguardavano un possibile controllo sulla messaggistica privata e la presenza di pubblicità. Inoltre, molti utenti hanno temuto ci fosse l’obbligo di possedere un account Facebook per poter continuare a usare l’app di messaggistica. I termini poco chiari usati nella comunicazione fatta da WhatsApp hanno contribuito ad aumentare la diffidenza.
È dello stesso avviso il Garante della Privacy in Italia. Sul sito si può, infatti, leggere: «Il messaggio con il quale WhatsApp ha avvertito i propri utenti degli aggiornamenti che verranno apportati, dall’8 febbraio, nei termini di servizio – in particolare riguardo alla condivisione dei dati con altre società del gruppo – e la stessa informativa sul trattamento che verrà fatto dei loro dati personali, sono poco chiari e intelligibili e devono essere valutati attentamente alla luce della disciplina in materia di privacy. Per questo motivo il Garante per la protezione dei dati personali ha portato la questione all’attenzione dell’Edpb, il Board che riunisce le Autorità privacy europee».
WhatsApp ha ammesso che l’informativa possa aver creato della confusione. In un altro comunicato si può leggere che «poiché la circolazione di informazioni errate e non veritiere ha causato preoccupazione, desideriamo fare chiarezza e assicurarci che tutti comprendano i principi su cui ci basiamo». Innanzitutto, le comunicazioni personali non saranno controllate né tantomeno salvate permanentemente nei server di WhatsApp. I dati raccolti riguarderanno quelli necessari a fornire e migliorare il servizio sottoscritto. Per i cittadini europei, inoltre, c’è una protezione in più. Gli utenti che utilizzano la piattaforma di messaggistica, sottoscrivono il contratto di servizio con WhatsApp Ireland e non direttamente con WhatsApp Inc., vincolando l’azienda a sottostare alle regolamentazioni europee.
Nello specifico, il regolamento europeo GDPR vieta che i dati raccolti da un’azienda siano condivisi con terze parti. Come confermato in una nota ufficiale dell’azienda, «non ci sono modifiche alle modalità di condivisione dei dati di WhatsApp nella Regione europea, incluso il Regno Unito, derivanti dall’aggiornamento dei Termini di servizio e dall’Informativa sulla privacy. Non condividiamo i dati degli utenti dell’area europea con Facebook allo scopo di consentire a Facebook di utilizzare tali dati per migliorare i propri prodotti o le proprie pubblicità». WhatsApp ha, inoltre, prorogato al 15 maggio la data per accettare i nuovi termini, dando la possibilità agli utenti di informarsi adeguatamente e fugare così ogni dubbio.
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Negli stessi giorni in cui le notizie dell’aggiornamento dei termini di servizio facevano il giro del mondo, molti utenti allarmati hanno deciso di abbandonare WhatsApp per altre piattaforme di messaggistica istantanea. Diverse compagnie hanno tentato di sfruttare il momento per provare ad assicurarsi qualche nuovo fruitore, con metodi più o meno efficaci. Un paio di applicazioni, però, hanno visto crescere il proprio bacino di utenza in maniera importante.
La prima è stata Telegram, applicazione fondata dall’imprenditore russo Pavel Durov, sviluppata dalla società Telegram LLC e distribuita in licenza libera a partire dal 2013. La piattaforma ha acquisito venticinque milioni di nuovi iscritti in appena settantadue ore. Secondo lo stesso fondatore, Telegram è diventata un rifugio per “le persone che non vogliono più scambiare la loro privacy con servizi gratuiti”. La seconda piattaforma in questione è Signal, applicazione sponsorizzata persino dall’imprenditore Elon Musk. Sviluppata da attivisti pro-privacy nel 2013, ha tra i suoi finanziatori Brian Acton, uno dei fondatori di WhatsApp. Acton aveva lasciato l’azienda nel 2017 non trovandosi d’accordo con le politiche adottate in seguito all’acquisizione della compagnia da parte di Facebook. Signal ha avuto una crescita modesta rispetto alla concorrente Telegram, anche se in poche ore ha visto aumentare di quasi nove milioni la propria utenza, arrivando a superare i cinquanta milioni di download totali.
Nonostante proclami ed endorsement importanti, è giusto chiarire fin da subito che la crittografia usata dalle tre piattaforme è la stessa. Tutte le applicazioni menzionate proteggono le conversazioni private dei propri utenti secondo un sistema cifrato end-to-end. In pratica, solo mittente e ricevente possono leggere i messaggi che si scambiano, senza la possibilità che le aziende che gestiscono le app possano vederli. La differenza tra queste piattaforme sta nella raccolta che viene fatta di tutti i dati correlati alla fruizione del servizio, i cosiddetti metadati. Mentre WhatsApp e Telegram tengono traccia di informazioni come IP del dispositivo, modello dello smartphone, geolocalizzazione e quant’altro, Signal non immagazzina questa tipologia di dati.
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