Sono passati quasi due mesi dal giorno in cui il leader di Italia Viva Matteo Renzi ha annunciato, in quella ormai celebre conferenza stampa serale, il ritiro delle ministre Bonetti e Bellanova dal Governo Conte II. In questo mese i trend come al solito sono stati molteplici. Per quasi una settimana i meme su Renzi si sono sprecati, rispolverando vecchie dichiarazioni (ma nemmeno così vecchie) dell’ex premier sui piccoli partiti che pongono veti e sul suo ritiro dalla politica post referendum.
Poi, una volta arrivati allo snodo chiave della crisi di governo, ossia la relazione dell’ex ministro della giustizia Alfonso Bonafede, si è definitivamente consumata la crisi, con tutto ciò che ne è conseguito. Prima l’incarico esplorativo affidato a Roberto Fico, che inizialmente sembrava risolutore e in grado di riportare al Presidente della Repubblica la possibilità di formare un Conte III a partire dalla maggioranza uscente.
I risultati ormai sono storia: le frizioni tra Renzi e i pentastellati hanno fatto tramontare le speranze di re-incarico dell’avvocato pugliese e Sergio Mattarella, dopo un discorso di uno spessore oramai raro in politica, ha deciso di rivolgersi al professor Mario Draghi per la composizione di un «governo di alto profilo». Dal 3 febbraio, l’interesse nazionale verso l’ex Presidente della BCE ha addirittura superato quello per l’emergenza pandemica in corso. Ora, dopo la fiducia ottenuta alle camere, il Governo Draghi è diventato realtà: vediamo come si compone e come i partiti escono da questa fase così delicata.
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Forza Italia: una sconfitta che sembra una vittoria
Nell’ampia maggioranza che ha garantito il sostegno a Mario Draghi, Forza Italia si è ritagliata un ruolo importante. Nel mare magnum del centro-destra, con la Meloni apertamente all’opposizione e le posizioni della Lega che stanno facendo “scalpore” all’interno della base, il partito fondato da Silvio Berlusconi è apparso come la forza equilibratrice delle varie anime della coalizione.
In termini numerici Forza Italia ha ottenuto tre ministeri nel Governo Draghi, stesso numero di Lega e PD, un dato che, visto solo in termini numerici, potrebbe far pensare a una grande vittoria per i forzisti: ma così non è, e per capirlo al meglio bisogna dividere i commenti in due parti. In primo luogo, i tre ministeri ottenuti sono tutti senza portafogli e non di particolare peso in questo momento storico dove le esigenze del Paese sono indirizzate su problematiche ben definite. Inoltre, due dei tre ministri, ossia Renato Brunetta e Mara Carfagna, appartengono a quella parte di Forza Italia che già in passato aveva strizzato l’occhio a una possibile maggioranza ampia dell’eventuale Conte III. Anagraficamente sono dei fedelissimi del Cavaliere, idealmente molto meno. Insomma, non stiamo di certo parlando di Antonio Tajani o di Gianni Letta. Tra i due comunque quello con più margine di manovra è il Ministero per la Pubblica Amministrazione, che però dovrà necessariamente scontrarsi con Vittorio Colao, tecnico incaricato come ministro per la Transizione digitale.
Discorso molto diverso per quanto riguarda Mariastella Gelmini. L’ex ministra dell’Istruzione del Governo Berlusconi IV è da anni uno dei vertici di Forza Italia, capogruppo alla Camera, e la sua posizione politica è da sempre chiara e solida. Tuttavia, attorno alla Gelmini è scoppiato un caos mediatico che, a detta di chi scrive, non serviva. Gli studenti si ricordano come fosse ieri le proteste del 2008 e di sicuro non hanno minimamente sentito la mancanza della lombarda, ma attribuire così tanta salienza a una donna che in fin dei conti ha ottenuto un ruolo marginale nel nuovo esecutivo sembra un modo per distogliere l’attenzione dai veri problemi attuali. Sia chiaro: dimenticare gli orrori del passato non è possibile ma forse, in questo momento, ricordare il 2008 serve a poco.
Il Movimento 5 Stelle e una possibile implosione
Dalla sfumata possibilità di comporre il Governo Conte III ad oggi, nel M5S è successo davvero di tutto. È senza dubbio il partito più in difficoltà sul piano interno, con varie anime che sembrano oramai destinate a scontrarsi. Le capriole politiche di Vito Crimi e le dichiarazioni di Beppe Grillo che, con i modi che lo contraddistinguono, è arrivato a dire che Mario Draghi è grillino, hanno fatto capire a tutto il mondo pentastellato che la linea politica scelta è quella governista, dei vari Di Maio, Patuanelli, Bonafede, Licheri, eccetera. Il passaggio più tragicomico dell’affaire è stato il voto sulla piattaforma Rousseau, con un quesito che ha sfidato ogni regola di question wording diventando un confuso agglomerato di nulla. Nella domanda si poneva enfasi sull’ormai fantomatico super-ministero della Transizione Ecologica, ministero che sì è stato istituito ma allo stesso tempo è stato affidato a un tecnico che di grillino non ha proprio nulla: Roberto Cingolani.
Dopo il voto su Rousseau, Alessandro Di Battista ha abbandonato il Movimento e da quel momento il marasma è diventato totale. Recentemente Barbara Lezzi ha richiesto un nuovo voto sulla piattaforma per sondare il sentiment della base, che però è stato negato da Grillo e compagnia. Le frizioni interne si sono potute osservare anche durante il voto di fiducia al Governo Draghi, in cui trentasei tra senatori e deputati del Movimento hanno votato contrari. Risultato: espulsione dal M5S. In tutto ciò, i pentastellati, che restano il partito di maggioranza relativa in Parlamento, hanno ottenuto quattro ministeri nel nuovo Governo Draghi. Centralità dei ministeri? Scarsa. Sicuramente la continuità di Di Maio alla Farnesina è un risultato importante ma allo stesso tempo resta qualche perplessità su quanto/quando/come Mario Draghi lascerà spazio di manovra all’ex capo politico del Movimento in materia di politica estera.
In tutto ciò manca all’appello l’uomo che ha governato l’Italia (bene o male, non è questo il posto per deciderlo) nel momento più difficile dal secondo dopoguerra: Giuseppe Conte. Per mesi si è parlato di una possibile nuova lista Conte, che però sembra sempre meno probabile. L’uscita di scena, improvvisa e a dir poco rapida, non gioca a favore della popolarità dell’ex premier. Infatti, in questi giorni, si fa sempre più insistente l’ipotesi di Giuseppe Conte alla guida del M5S. Nel frattempo, su Rousseau si è tenuta un’altra votazione che ha deposto Vito Crimi dal ruolo di capo politico a favore di una nuova governance composta da cinque membri. La nascita dell’intergruppo parlamentare con PD e LeU spinge verso quella direzione, che riprende quanto detto dall’avvocato del popolo sulla possibile nascita di un’alleanza per lo sviluppo sostenibile. Dal V-Day a un’eventuale guida Conte; dal giallo-verde al giallo-rosso, passando per il giallo-rosso-verde-blu-tecnico: il Movimento 5 Stelle ora ha bisogno di un’identità.
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Una Lega dialogante: ma c’è da fidarsi?
A leggere di Matteo Salvini che ha appoggiato e supportato le scelte del ministro Speranza si può pensare per un secondo che si tratti di un titolo di Lercio. E invece no. Il tema in questione, tra l’altro, era forse uno dei pochi assi nella manica che l’ex ministro dell’Interno poteva giocare per fare “opposizione dall’interno”, ossia la mancata apertura degli impianti sciistici. Il leader della Lega nelle ultime settimane è apparso aperto ai dialoghi con tutte le forze politiche, assolutamente in linea con quanto richiesto da Mattarella. Non ci dovrebbe essere nulla di che stupirsi, se non fosse per il soggetto in questione. Salvini di recente ha avuto toni propositivi con l’Unione Europea, ha dialogato con Nicola Zingaretti e il PD e soprattutto non ha posto alcun tipo di veto né su contenuti né tantomeno su nomi nel nascente Governo Draghi.
Il partito di via Bellerio ha ottenuto tre ministeri, di cui uno di notevole importanza ma altrettanto spinoso: quello dello Sviluppo Economico, assegnato a Giancarlo Giorgetti. Il vicesegretario federale della Lega è storicamente parte della corrente più “moderata” del partito e si è spesso trovato in dissenso con la linea nazionale, ad esempio sul tema del referendum sul taglio dei parlamentari. In prospettiva futura, la Lega avrà la possibilità di giocare politicamente su due piani. Da un lato potrà avvallare la linea del governo di cui fa parte, ma allo stesso tempo potrà fare opposizione dall’interno, come ha già iniziato a fare il ministro per il Turismo Garavaglia attorno al tema sci, così da non far defluire verso Fratelli d’Italia tutta quella base di elettorato che non vede di buon occhio questa maggioranza ampia. Strategia a lungo termine o parziale cambio di rotta?
Il Partito Democratico: tante polemiche, pochi contenuti
Conte III o Draghi I, l’unica vera costante che è risultata imprescindibile è la partecipazione del Partito Democratico nel nuovo governo. Il PD non sta di certo attraversando il periodo più illuminato della sua esistenza, ma ciò che è innegabile è il suo ruolo politico, carismatico e intellettuale all’interno dell’attuale classe politica tout court. Nelle ultime settimane ci sono state numerose polemiche per non aver proposto donne come ministre per l’esecutivo nascente. Un errore così grossolano, fatto da un partito che continua ad apparire e a proporsi come di centro-sinistra, non ha giocato a favore del PD e anzi potrebbe dimostrarsi una battuta d’arresto importante. Quando si parla del PD si fa costantemente riferimento alla responsabilità. I toni sono sempre i più pacati e istituzionali, il che potrebbe anche rivelarsi un’arma vincente se solo fossero corredati da una linea politica chiara.
La segreteria di Nicola Zingaretti non è più così intoccabile e la nascita dell’intergruppo con LeU e M5S ha lasciato di stucco una buona parte dell’elettorato. Se l’obiettivo è di breve periodo, ossia le amministrative primaverili, la scelta di costruire un sodalizio con le forze del Conte II può essere considerato saggio: d’altronde si vota in molti comuni di notevole importanza (Roma, Milano, Torino, Trieste, Bologna). Se invece si sta andando verso qualcosa di più strutturato, questa alleanza potrebbe rivelarsi una vera e propria bomba. Nel Governo Draghi il PD ha ottenuto tre ministeri, come Lega e FI. Tuttavia, il peso relativo dei tre ministeri è maggiore rispetto a quello delle compagini di centro-destra. La scelta di affidare al vice-segretario Andrea Orlando il Ministero del Lavoro è stata saggia ma necessiterà di una gestione lungimirante anche in vista dello sblocco dei licenziamenti e delle politiche attive del lavoro del futuro. Le conferme di Lorenzo Guerini alla Difesa e di Dario Franceschini alla Cultura sono nel segno della continuità e hanno trovato un ampio consenso anche da forze politiche lontane dal PD.
I riformisti, a.k.a. i centristi
L’uomo che continua a definirsi il “vincitore” di questa fase politica è ovviamente Matteo Renzi. Il discorso al Senato di Teresa Bellanova a tratti sembrava un autoelogio, una sorta di perifrasi neanche troppo velata che di fondo voleva dire «senza di noi Draghi non ci sarebbe stato». Bene, ora che l’applauso è finito c’è da osservare il tweet di Ettore Rosato, il quale ha scritto: «La scelta di andare verso una coalizione strutturale tra PD, LeU e M5S […] apre una prateria per chi vuole costruire la casa dei riformisti. Italia Viva c’è è ci sara. Per il riformismo, contro il populismo». Ammesso e non concesso che la coalizione sia destinata a diventare davvero strutturale, i contenuti “riformisti” proposti da IV in questo anno e mezzo di vita non hanno di certo mosso gli animi dei riformisti veri, quelli senza virgolette. E infatti, i sondaggi continuano a darla al 3% e con margini di peggioramento. Va assolutamente fatto un in bocca al lupo alla ministra Elena Bonetti, donna di grande spessore umano e intellettuale, ma le varie boutade di Renzi, Boschi e compagni iniziano a risultare stantie.
Trend diverso per Azione di Carlo Calenda, che continua a guadagnare nei sondaggi anche tra i giovani. La posizione chiara e coerente dalla nascita del partito erede della lista Siamo Europei, ha dato un bell’impulso all’ex titolare del Mise. L’obiettivo prioritario di Calenda sono le elezioni comunali, per cui è candidato al Campidoglio. È risaputo che l’elezione del Sindaco di Roma è una tornata di importanza nazionale e per questo l’attenzione su di essa è massima. Amministrare bene la città (cosa molto difficile) può avere un’eco enorme, ma allo stesso tempo la malagestione (cosa meno difficile) rischia di diventare un kamikaze nelle vite politiche dei sindaci. Il primo nodo da sciogliere per Azione è quello di capire chi vorrà appoggiare la candidatura di Calenda con il PD che sembra più indirizzato verso Roberto Gualtieri, scelta che inevitabilmente toglierebbe una mole importante di voti all’Eurodeputato.
I veri protagonisti del Governo Draghi tuttavia saranno i tecnici, uomini e donne davvero di alto profilo che l’ex Presidente della BCE ha scelto per l’esecutivo. I due ministeri “delle transizioni” che dovranno gestire decine di miliardi sono stati affidati a due professionisti, Colao e Cingolani. Ottime anche le nomine della professoressa Cristina Messa e di Patrizio Bianchi rispettivamente all’Università e all’Istruzione, che garantiranno competenza e (si spera) lungimiranza attorno a tematiche direttamente correlate alle nuove generazioni. Al MEF, il Direttore Generale di Bankitalia Daniele Franco lavorerà a stretto contatto con Mario Draghi per fronteggiare la crisi economica e per la gestione dei fondi del Recovery, mentre Luciana Lamorgese è stata confermata al Viminale dopo l’ottimo lavoro nel Conte II. Insomma, questi nomi rappresentano la speranza per il Paese. Sicuramente per certi versi ci si poteva aspettare qualcosa di meglio per il “governo dei migliori”, ma gli equilibri politici hanno indirettamente vincolato Mario Draghi a scelte in grado di mantenere solida la maggioranza parlamentare. Il Governo Draghi sarà in grado di risollevare il Paese?