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Spettacolo

We got lucky: un coccodrillo per i Daft Punk

Published by
Marco Cherubini

Discutere di cosa abbiano rappresentato i Daft Punk nel panorama musicale non è un compito semplice. Il duo french house è stato rivoluzionario. Il loro primo lavoro, Homework, è stato una pietra miliare della musica elettronica. Pur togliendosi i nostalgia goggles, gli occhiali della nostalgia, e riascoltando il disco nel 2021, è difficile non capire come mai sia stato un lavoro così influente su tutto ciò che è venuto dopo, da deadmau5 a Skrillex, passando per gli LCD Soundsystem. Giri di basso e sintetizzatori supercatchy, una produzione e un mixaggio ottimi, sonorità direttamente reminescenti della musica funk ne fanno un solido disco d’esordio. Un’elettronica differente, meno aggressiva di quella proposta, ad esempio, dagli allora contemporanei The Prodigy di Liam Howlett.

Daft Punk: Epilogue

Ma come tutte le cose belle, anche la carriera dei Daft Punk è giunta alla fine. La comunicazione annunciante il termine della loro collaborazione, durata dal 1993 al 2021, dopo ventotto anni e quattro album, è stata data tramite un video esplicitamente intitolato Epilogue. Le visual sono quelle del loro film Electroma, uscito nel 2006: il racconto di due robot la cui realizzazione finale è quella di diventare completamente umani. Nella scena rappresentata si vede l’identità robotica di Bangalter esplodere, mentre Guy-Manuel osserva la fine del proprio compagno di viaggio, dopo averlo aiutato ad attivare il timer per l’autodistruzione presente sulla sua schiena.

Il video si chiude con de Homem-Christo allontanarsi nel deserto, verso il tramonto, sempre alla ricerca di una mai promessa umanità, con una versione corale del brano Touch, presente in Random Access Memory, a fare da sottofondo alla struggente scena. Non sono necessarie parole. Tutte le emozioni vengono veicolate allo spettatore dalle immagini e dalla colonna sonora. Il cerchio si chiude, un finale emozionante che corona ventotto anni di carriera. Quattro album e un breve excursus nel mondo delle colonne sonore cinematografiche (Tron del 2010) sono pochi se confrontati alle release della maggior parte degli altri artisti, del genere e non solo, ma la quantità viene ampiamente compensata dalla qualità.

Leggi anche: Ennio Morricone, la sublimazione della musica.

Un nuovo capitolo della musica dance

Non mi piace addentrarmi nei meandri delle mie opinioni personali durante la stesura di un pezzo, ma per parlare dei Daft Punk sono purtroppo costretto a farlo. Sì, suonerò di parte e me ne scuso anticipatamente con i lettori, ma in questo contesto è un male necessario. Scoprii i Daft Punk durante l’ultimo anno di liceo, a cavallo tra 2010 e 2011, quasi per caso, tra i video consigliati di uno YouTube ancora acerbo. Il primo pezzo che ascoltai fu Aerodynamic, secondo pezzo preso da Discovery. Ne fui immediatamente ipnotizzato: il ritmo trascinante della batteria accompagnata da un leggero giro di basso. E poi quell’assolo di chitarra nel primo minuto del brano che, pur non ascendendo al virtuosismo, creava un’amalgama perfetto, ponendo le fondamenta dalle quali sarebbe sorto il tono dei successivi dodici brani.

Discovery si distacca dalle sonorità del disco d’esordio: è più dance, i sintetizzatori creano melodie più dolci e di facile ascolto, i campionamenti utilizzati sono moltissimi, il mixaggio e la produzione generale superlativi. È un album che si fa ascoltare e da ballare. Sfido chiunque a non riuscirci sulle note di One More Time o Hard, Better, Faster, Stronger. È un concept album scaturito dalla volontà di Guy-Manuel e Thomas di immergersi completamente nei ricordi della loro infanzia e dal loro amore per il cinema. Questo è l’album che ritengo abbia consolidato le sonorità del duo francese e il più influente da loro pubblicato. Un nuovo capitolo e un’evoluzione per la dance.

La copertina di Discovery.

Buon compleanno, Discovery

Discovery compierà vent’anni quest’anno. La sua eredità è ascoltabile ancora oggi nei più disparati sottogeneri della musica elettronica. One More Time, Aerodynamic, Harder, Better, Faster, Stronger, Crescendolls: il ritmo dell’album è un continuo crescendo. Poi tutto si ferma come cristallizzato in un fermo immagine. La facciata dance, i toni allegri e catchy che avevano accompagnato l’ascoltatore decadono. Con l’arrivo di Something About Us si cerca in qualche modo di tornare alla sobrietà, ma lo stato di alterazione rimane comunque predominante.

Quei quattro negroni a stomaco vuoto che vi siete bevuti vi hanno fatto ballare fino a Nightvision: lì avete iniziato a capire che la sbronza allegra stava per lasciare il posto a quella triste. Parte Something About Us e l’unica cosa da fare è sedersi contro un muro e contemplare le vostre scelte passate e future. Nel 2003 Leiji Matsumoto, padre di Capitan Harlock e Galaxy Express 999, trasporterà Discovery sul grande schermo, trasformandolo in un film di animazione, Interstella 555. Non svelerò la trama dell’opera, ci sono ancora parole che devono essere scritte, ma consiglio vivamente a chi leggerà questo articolo di recuperarlo.

Leggi anche: L’eredità di David Bowie nella musica.

9/09/1999, 9:09: la nascita dei robot

L’uscita dell’album segna anche la consolidazione dell’estetica daft-punkiana: compaiono i nuovi Thomas e Guy-Manuel. Il 9 settembre del 1999, alle 9:09 del mattino, nacquero i robot. Uno dei campionatori nel loro studio esplose, colpendo il duo. Al loro risveglio, scoprirono che l’esplosione li aveva trasformati: la forma umana non apparteneva più a loro, ora due esseri completamente meccanici. La prima apparizione pubblica della loro nuova persona fu durante un set fotografico per l’uscita di Discovery. Fu in questo momento che venne svelato al grande pubblico l’elemento che andrà a consolidare per gli anni a venire l’estetica dei due musicisti: i loro simbolici caschi.

Dotati di tecnologia led e alimentati da un ingombrante pacco di batterie posto sulla schiena dei due, dal costo di circa sessantacinquemila dollari, i due elmetti erano capaci di mostrare messaggi e giochi di luci sui visori, abbinati a due paia di guanti che permettevano ai musicisti di selezionare cosa visualizzare. La scelta dell’anonimato fu naturale per i due. Di natura timida e distaccata, Bangalter e de Homem-Christo non erano artisti in cerca di fama. L’attenzione rivolta loro, tra interviste e set fotografici, stava diventando insostenibile. Iniziarono a presentarsi mascherati alle interviste precedenti le esibizioni, un simbolo di ribellione contro quei riflettori che tanto disprezzavano; per entrambi al centro dell’attenzione doveva esserci la musica, non la vita degli artisti. Fu questo il percorso che li spinse ad assumere le loro due nuove, cromate identità.

La copertina dell’album Human After All.

Alive 2007, Human After All e Random Access Memories: gli ultimi album

Ma è ora di finirla con gli spiegoni sugli album anche se ne mancano ancora due, che cercherò di riassumere brevemente. No, non toccherò Alive 2007, anche se lo considero, ad oggi, il miglior album live pubblicato, musicalmente ed esteticamente. Human After All è considerato dalla critica e dai fan il disco più debole del duo. Di ispirazione kraftwerkiana data dall’utilizzo massiccio di vocoder e di sonorità spiccatamente rock, è in netto contrasto con il precedente lavoro, un taglio deciso dalle atmosfere fantascientifiche e dance di Discovery. Risulta anche più sobrio di Homework.

Random Access Memories è invece un omaggio alla musica disco degli anni Settanta. I giri di chitarra di Get Lucky e i suoni alla Moog ne sono l’emblema. Considero questo l’abum più debole dei Daft Punk, non perché sia troppo “commerciale”, ma per il fatto che non mi abbia mai coinvolto emotivamente come i precedenti, non mi abbia mai lasciato quella sensazione di “wow” come fece Discovery. Ci sono dei gran pezzi al suo interno – Touch, Giorgio by Moroder, Contact per citarne tre – ma poi troviamo anche… Pharrell Williams. Forse nel 2013 non ero pronto per un omaggio alla disco music, la diretta conseguenza è stata che RAM l’ho ascoltato molto meno dei lavori precedenti.

L’eredità del gruppo più influente della musica contemporanea

Ora siamo qui, nel 2021, a contemplare questi ventotto anni di carriera e l’eredità che hanno lasciato al mondo della musica. Prendiamo Digital Love e Something About Us come esempio. Le due tracce fanno ampio uso di autotune. Cher, con il suo brano Believe del 1998, vinse un Grammy grazie al suo utilizzo. Oggi è una tecnica completamente sdoganata nel mondo della musica pop: Katy Perry, Future, Kanye West, Nicki Minaj sono solo alcuni artisti che correggono la propria intonazione tramite l’utilizzo di software.

La piramide di Alive 2007, centro di comando di un’esibizione live rivoluzionaria, ha cambiato per sempre il modo di concepire gli stage, influenzando artisti come Avicii e deadmau5. Due robot al centro di una piramide illuminata, uno spettacolo uditivo e visivo, un vero e proprio sovraccarico sensoriale. Il loro sound è stato copiato, ricopiato, distorto, l’esplosione dell’EDM negli anni Duemila è una diretta conseguenza della loro influenza e segno tangibile di un’eredità fabbricata grazie a soli quattro album e un live. Vorrei dire che i Daft Punk sono stati il gruppo più influente della musica contemporanea, ma questo lo lascio fare ad Alexis Petridis del Guardian, ben più qualificato di me a parlare di questi argomenti.

Hold on, if love is the answer you’re home. Chiudo i miei personali e acritici sproloqui con un grazie a Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo per averci donato più di vent’anni di emozioni.

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Marco Cherubini

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