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Spettacolo

Lei mi parla ancora: il nuovo film di Avati fra memoria e nostalgia

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Michele Piatti

«L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia». È una citazione da Cesare Pavese la chiave di volta di Lei mi parla ancora, ultima fatica cinematografica di Pupi Avati. Il film, uscito sulla piattaforma Sky Cinema l’8 febbraio di quest’anno, è tratto dall’omonima autobiografia di Giuseppe Sgarbi, padre di Elisabetta e Vittorio, edita nel 2016 per Skira. A impreziosire l’opera, che si rivela una delicata riflessione sull’amore che resiste al tempo, il regista ottantaduenne ha chiamato un cast d’eccezione. Fabrizio Gifuni, Stefania Sandrelli e Alessandro Haber circondano infatti Renato Pozzetto che, dopo una carriera sessantennale quasi esclusivamente da comico, si riscopre splendido interprete drammatico.

La trama di Lei mi parla ancora

La vicenda biografica di Sgarbi (Pozzetto), a prima vista, non avrebbe quasi nulla di sorprendente. Una giovinezza tra Ferrara e la pianura che corre lungo gli argini del Po, fatta di vita contadina e passatempi da ricco borghese di campagna. Seguono una carriera da farmacista affermato, una passione per l’arte tale da trasformare la propria villa in un museo, due figli affermati nei rispettivi campi. Soprattutto, l’amore lungo una vita per la moglie Rina Cavallini (Sandrelli) e quella promessa che i due si fanno il giorno delle nozze: volersi bene per sempre e diventare così immortali. Un giuramento che sa di tempi andati, ormai dispersi fra le nebbie della bassa padana.

Il fiume Po presso Ferrara, ambientazione e coprotagonista del film. Foto: Wikimedia Commons.

Nell’eccezionalità di questo patto, come nell’incontro fra i ricordi di Sgarbi e il mondo contemporaneo, sta la spina dorsale del film: dopo la morte di Rina, la figlia Elisabetta chiama da Roma, perché scriva le memorie del vedovo, il giornalista Amicangelo (Gifuni). Un individuo disilluso, il cui rancore per i fallimenti professionali sembra pari solo all’incostanza affettiva. Il dialogo fra l’anziano signore e l’ancora – per poco – giovane ospite apre una falda fra due periodi, e due vite, apparentemente inconciliabili. Lo spettatore viene così preso per mano e portato indietro di settant’anni, a scoprire «il segreto degli ombrelli che si aprono nelle notti sul Po, quando vai sull’argine e ti nascondi alla strada».

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L’Italia del giovane Sgarbi è quella del dopoguerra, che vede coppie ballare al suono di un grammofono e rampolli di buona famiglia discutere di Ariosto mentre vanno a pesca. Quella di Amicangelo, invece, risuona di traffico stradale, precarietà e sadici agenti letterari. Lei mi parla ancora è contemporaneamente la storia di un amore e della possibilità di narrarlo, attraverso un patto di reciproco scambio fra interlocutori.

Recensione del film

La mano di Avati si nota nel malinconico indugiare su case, vestiti e colori di un’Emilia dove gli anni Cinquanta sembrano non essere mai finiti. L’occhio del regista osserva con nostalgia la vita dei suoi personaggi ma, soprattutto, ne guarda la morte. Il film si apre con la scomparsa di Rina, è permeato di fantasmi e cita Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. È inoltre ambientato in una casa-museo che sembra, per propria natura, voler preservare chi la abita dallo scorrere del tempo. Lo sguardo di Avati interseca quello del coetaneo Pozzetto, la cui inconfondibile voce, solo resa più cauta e melodiosa dall’età, suona come corredo testuale alle immagini. Per essere tratta da una biografia di altri, la narrazione si fa incredibilmente personale. Chi la segue è portato a chiedersi se Avati, Pozzetto e Sgarbi non siano in fondo la stessa persona.

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Allo stesso modo, viene il sospetto che il regista si riveda, in parte, anche nel personaggio di Gifuni, nella sua continua aspirazione artistica che si trasforma in conflitto e domanda sui limiti del racconto stesso. Pure l’inevitabile curiosità data dalla parentela del protagonista con Vittorio, personaggio tutt’altro che neutro nell’immaginario italiano, svanisce presto: a rimanere è il ritmo di una storia che del fiume Po ha l’incedere dolce ed eterno.

Fabrizio Gifuni, coprotagonista con Renato Pozzetto del film. Foto: Wikimedia Commons.

Avati recupera immagini – quasi fossero cartoline, o album di famiglia – della vita di paese che fu. Le investe di un registro emotivo elegiaco, che rimanda al suo La seconda notte di nozze (2005), film con Antonio Albanese e Angela Finocchiaro. Lei mi parla ancora non è un’opera perfetta. Tuttavia, ha il fascino irrisolto di un lavoro artigianale, più simile a un memoriale privato che a un romanzo per il pubblico.

Lei mi parla ancora come racconto sull’anzianità

Andando al di là del film in sé, due sono le riflessioni che ne scaturiscono. La prima riguarda quella tendenza di successo, nella produzione cinematografica internazionale, a raccontare la terza età. Come se il cinema, arte il cui tempo è ancora misurabile con parametri temporali prossimi a una vita umana, volesse confrontarsi con le generazioni che l’hanno vissuto nella sua forma più urgente. Amour di Paul Haneke, nel 2012, ha rispolverato il filone portandolo agli Oscar, quando già vent’anni prima Clint Eastwood immortalava l’immagine della senilità del western con Gli spietati (1992).

Non soltanto comici

La seconda riflessione coinvolge Pozzetto e la sua capacità di interpretare un ruolo crepuscolare e struggente. Valga come suggerimento a chi, soprattutto nell’ambito della critica italiana, tende a separare il comico e il poetico, il serio e il popolare. Nel film è presente fra gli altri, Gioele Dix, uomo di palcoscenico versatile e colto, capace di monologhi satirico come di lezioni di due ore sulla Bibbia. Raramente chiamato al cinema, Dix è scomparso dalla televisione orami da qualche anno e ricordato perlopiù solo per gli (efficaci) interventi a Zelig.

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Sorte, quella della maschera istrionica costretta al proprio ruolo, su cui un altro grande decano della recitazione popolare italiana si è trovato più volte a riflettere. «La risata del pubblico è una droga», diceva Gigi Proietti ben conscio che, donandosi al pubblico a inizio carriera, avrebbe avuto vita non facile con i difensori della cultura cosiddetta “alta”. Complimenti a Pozzetto, pertanto, capace di far convivere in sé, parafrasando un suo vecchio titolo, sia il ragazzo che il signore di campagna. Complimenti infine ad Avati, che non cessa di produrre cinema e, nel farlo, mostra come anche l’amore per la propria arte renda invincibili al tempo.

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Michele Piatti

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