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Pablo Hasél, l’indipendentismo e la libertà di espressione

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Laura Bruschi

La storia del recente arresto del rapper Pablo Hasél è più complicata di quello che sembra. Tocca la libertà di espressione, il diritto spagnolo, il rapporto con la casa reale, gli indipendentisti della Catalogna e (ancora una volta) la pandemia. Nella lotta per la libertà di espressione, sembra essere in bilico anche il destino della monarchia.

Chi è Pablo Hasél

Pablo Hasél è un rapper spagnolo – anzi, catalano –  di trentatré anni non proprio nuovo alla giustizia. Diventato noto nel 2014, a causa di una condanna per esaltazione al terrorismo, non ha mai smesso di esprimere le sue idee politiche e sociali tramite le sue canzoni e online. È da sempre sostenitore dell’indipendenza della Catalogna, un tratto che sembra accomunare anche i suoi ascoltatori. Nei suoi testi, accusa la monarchia di essere parte di un sistema oppressivo e punta il dito contro le azioni violente della polizia.

Sono diverse le condanne che Pablo Hasél ha già alle spalle: nel 2014 per esaltazione al terrorismo, nel 2016 per un’aggressione a un giornalista e nel 2018 per offese alla corona spagnola e ancora per esaltazione al terrorismo. Ma anche se sulla carta sembrano esserci tutti i presupposti per definirlo “un delinquente”, la realtà non è così semplice.

Leggi anche: La politica estera della Catalogna indipendente.

L’arresto del 16 febbraio e le proteste

Ma veniamo ai fatti recenti: l’arresto è arrivato in seguito alla conferma di una condanna a nove mesi per ingiurie contro la corona ed esaltazione al terrorismo per fatti avvenuti nel 2018. Più recentemente, pochi giorni prima dell’arresto, il rapper aveva insultato il re emerito Juan Carlos I, ora rifugiato negli Emirati Arabi a seguito degli scandali che lo hanno investito. Hasél era stato notificato dieci giorni prima, in modo che potesse costituirsi volontariamente. Anziché recarsi presso le autorità, il rapper si è recato presso l’Università di Lleida, sua città natale, dove si è barricato insieme ad alcuni sostenitori. Proprio all’interno dell’Università, in quella che doveva essere una protesta non-violenta, è stato arrestato la mattina del 16 febbraio. Da quel momento, la Spagna – ma soprattutto la Catalogna – si è accesa di proteste di cui gruppi violenti con idee indipendentiste e insurrezionaliste hanno presto preso il possesso.

Foto: Christoph Pleininger.

L’inasprimento della legge spagnola

La legge contro il terrorismo è molto dura, complice anche il vissuto terroristico della Spagna [principalmente dovuto al gruppo basco dell’ETA, N.d.R.] ed essere condannati non è poi così difficile. Infatti, dopo l’inasprimento della legge, artisti, cantanti, fotografi e utenti del web sono diventati tutti sanzionabili per istigazione al terrorismo. Se un tweet sarcastico può essere interpretato come un insulto, se un brano tratta della famiglia reale, se viene fotografata la polizia in azione, si può facilmente incorrere in una condanna.

Il caso Cassandra Vera

Sebbene Hasél sia la persona più nota per essere stata incarcerata per questi motivi, il suo caso non è isolato. Prima di Hasél, il caso più eclatante fu quello di Cassandra Verache nel 2016 venne condannata a un anno di carcere e sette anni di interdizione dal pubblico impiego a seguito di un tweet in cui nominava, ironicamente, un attacco terroristico dell’ETA accaduto nel 1973. Il tweet costò a Vera non solo la perdita della borsa di studio all’università, ma anche e soprattutto la sua libertà e dignità, in parte restituitele nel 2018, con l’assoluzione da parte della Corte Suprema.

Sebbene sia riprovevole scherzare sulle vittime degli attentati, sul terrorismo o su qualsiasi evento violento, d’altra parte è anche eccessivo che per un tweet, una fotografia o una canzone si possa finire in prigione. Incarcerare artisti per frasi ambigue, satira politica o idee contrastanti con la maggioranza è un segnale di quanto sia fragile la libertà di espressione. Secondo un report di Freemuse, nel 2019 la Spagna ha condannato più artisti della Turchia, dell’Iran e della Birmania.

Leggi anche: Libertà di espressione e sessualizzazione infantile: il caso Cuties.

A seguito dell’arresto il partito Podemos, la vicepremier Carmen Calvo e altri esponenti politici si sono espressi a favore di un ripensamento della legge, sostenendo che la libertà di espressione non possa essere punita con la privazione della libertà, se non mette a rischio la sicurezza altrui. L’obiettivo sarebbe quello di creare una legge con pene dissuasive, anziché carcerarie, ma – almeno per il momento – Pablo Hasel rimane in carcere e le proteste continuano.

Foto: David Parreño.

Leggi anche: Referendum Catalogna: Barcellona contro tutti.

Il supporto degli artisti spagnoli

Più di duecento personalità di spicco e artisti spagnoli hanno firmato un manifesto di solidarietà nei confronti di Pablo Hasél. Sostenendo che «se permettiamo a Pablo di essere incarcerato, domani potrebbero venire contro chiunque di noi, finché non saranno riusciti a fermare ogni sussurro di dissidenza». Tra i firmatari del manifesto vi sono il regista Pedro Almodóvar, il cantautore Joan Manuel Serrat e il rapper Valtony, autoesiliatosi in Belgio, nel 2018, per la stessa condanna di Hasél.

Anche Amnesty International ha criticato la decisione spagnola, sostenendo che nessuno dovrebbe essere perseguito per essersi espresso in modo non violento, sebbene le idee possano non essere condivise.

Gli indipendentisti catalani e il declino della monarchia

Ci sono tante spaccature che rendono questo un discorso da approfondire. Con l’arresto di Pablo Hasél, dopo un anno di pandemia, sono tornati alla ribalta problemi che, forse, non se ne erano mai andati.

Innanzitutto, le forze indipendentiste della Catalogna – di cui Hasél è sostenitore – che hanno decisamente influenzato le proteste, soprattutto con i partiti indipendentisti che hanno trionfato, proprio un paio di giorni prima dell’arresto del rapper, nelle elezioni catalane. Il momento è molto delicato e la regione impegnata nelle trattative tra i partiti vincitori per cercare un nuovo governo, rese ancora più difficili dal clima di tensione presente in tutta la regione.

Lo scontento per la Ley Mordaza, la “legge museruola” in vigore dal 2015 che vieta le proteste a meno che non siano approvate dalla polizia. Una legge che prevede sanzioni pecuniarie altissime, che sanziona la condivisione di immagini degli agenti della polizia e che ancora non è accettata dagli spagnoli.

E ancora, l’elettorato spagnolo che sembra essere sempre di più a favore della repubblica, inasprito dalle inchieste di corruzione per Juan Carlos I e dalla sua fuga negli Emirati Arabi.

E i giovani, molti dei quali sono gli stessi delle Marce della Libertà di fine 2019, che protestavano per l’arresto dell’indipendentista Oriol Junqueras. Sono giovani che da tempo hanno un desiderio di indipendenza che sembra essere impossibile da realizzare, che si trovano ad affrontare una disoccupazione ancora più grave di quella degli scorsi anni, con un’economia mai realmente ripresasi dalla crisi del 2008, totalmente sfiduciati verso le istituzioni del Paese.

In un momento di forte disoccupazione giovanile, si sono riaperte discussioni mai veramente chiuse in un territorio difficile, arrabbiato per la mancanza di indipendenza, sofferente alla monarchia e con una forte crisi economica e sociale. Barcellona è sempre stata propensa a proteste di questo tipo, la pandemia le aveva solo messe in pausa.

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Laura Bruschi

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