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Informazione alternativa e social network: come si formano le nostre opinioni?

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Francesco Leccese

Con la diffusione della diretta televisiva abbiamo assistito a una progressiva trasformazione del dibattito politico. Accerchiati da cronisti desiderosi di strappare l’ultima dichiarazione “a caldo”, i leader politici hanno colto le opportunità che la televisione offriva a chi voleva costruirsi un’immagine pubblica carismatica e popolare. Le segreterie dei partiti e i dirigenti di secondo piano sono state così messe in ombra dai numeri uno, i capi dei partiti, i quali hanno cominciato a dettare l’agenda politica tramite sintetiche dichiarazioni ai cronisti, o all’interno dei salotti dei sempre più popolari talk-show televisivi.

Oggi la situazione non appare molto diversa. I leader più carismatici tendono a parlare direttamente al Paese e al mondo tramite tweet e post su Facebook, a volte rivelando prese di posizione allora sconosciute persino ai propri collaboratori. Se la televisione rappresenta ancora un media di riferimento, rispetto a qualche tempo fa il dialogo tra politica ed elettorato risulta meno intermediato, con la figura del giornalista messa in secondo piano (se non messa addirittura in discussione, seguendo una linea di pensiero che vuole il giornalista fazioso in quanto portatore di interessi personali, suoi o del suo editore).

Due sono le conseguenze di questa evoluzione piuttosto recente. La prima è la libertà concessa alla politica di poter dire tutto e il contrario di tutto, con il contraddittorio ridotto al minimo grazie alla comunicazione diretta tra politica ed elettorato offerta dai social network; la seconda, invece, riguarda la crescente sfiducia nei confronti dei media tradizionali e del mainstream, citato spesso con accezione dispregiativa, mentre fioriscono blog e siti web che si farebbero portavoce di una informazione alternativa e “indipendente”.

L’informazione si sposta sui social network

Media tradizionali, leader politici e portavoce dell’informazione alternativa hanno trovato nei social network il luogo ideale dove divulgare i propri contenuti. Il risultato è un mondo variegato, in cui coesistono forze tra loro antagoniste. L’utente ha la possibilità di accedere, tramite un unico medium, ai contenuti a lui più congeniali. Tuttavia, occorre chiedersi se quello che vediamo sui social network sia semplicemente lo specchio della realtà, o se questa realtà venga in qualche modo filtrata.

La sociologia e la psicologia sociale studiano ormai da diversi anni i meccanismi di funzionamento dei social. Uno dei primi fenomeni osservati riguarda la tendenza alla polarizzazione. Inizialmente, si verifica la profilazione dell’utente che si affaccia per la prima volta sul social network. In sostanza, i nostri gusti e le nostre preferenze vengono appresi da algoritmi che hanno il compito di proporci, ogni volta che navighiamo in rete, i contenuti che hanno maggiore probabilità di essere apprezzati. Lo scopo primario di questa profilazione è prettamente commerciale: permette alle agenzie pubblicitarie di mostrarci beni di consumo compatibili con le nostre esigenze. Inoltre, la proposta di contenuti interessanti (notizie, videoclip eccetera) fa sì che ci soffermeremo per più tempo su quel determinato sito internet.

L’utente è quindi accompagnato durante le sue esplorazioni online dagli algoritmi che governano internet. Il suo libero accesso ai contenuti presenti in rete è perciò mediato e indirizzato tramite le continue proposte di contenuti che provengono dai motori di ricerca e dalle bacheche dei social network. Apparentemente innocuo, questo meccanismo favorisce la polarizzazione degli internauti. Questo fenomeno diviene evidente se si prende in considerazione il social network più popolare di tutti: Facebook. Attraverso la possibilità di seguire pagine e profili riguardanti aree tematiche e personalità di nostro interesse, oltre all’iscrizione in determinati gruppi di utenti che condividono una passione, un interesse comune o un’ideologia, all’interno di Facebook si andrebbero a creare le cosiddette “camere dell’eco” (echo chambers). Si tratta di gruppi omogenei di persone, accomunati da un interesse comune, i quali si ritrovano a discutere notizie riguardanti l’oggetto che guida l’indirizzo tematico del gruppo. Quando questi gruppi o pagine si riferiscono a un partito o a un leader politico o, quando semplicemente l’argomento portante riguarda una ideologia politica, il dibattito risulta monodirezionale.

Il contraddittorio è in genere assente e le voci fuori dal coro vengono o allontanate o sminuite e ridicolizzate dal “branco”. A lungo andare, la riproposizione delle stesse idee, alimentate dal consenso ottenuto dagli altri membri del gruppo e mai messe seriamente in discussione da un dibattito critico, finiscono per rafforzare le posizioni di partenza, con conseguente radicalizzazione.

È bene chiarire che questo fenomeno non riguarda solo la vita sui social, né tantomeno può essere ridotto al solo contesto politico-ideologico. Tuttavia, la preoccupazione è particolarmente rivolta al mondo politico: è possibile sfruttare il meccanismo di funzionamento dei social per influenzare le preferenze politiche delle persone? E in cosa questa propaganda-via-social differisce dalle tradizionali campagne elettorali del passato?

2016: tra campagne elettorali e diffusione di fake news

Nel 2016 si sono tenute due importanti consultazioni elettorali che hanno ricevuto inevitabilmente eco mondiale: le presidenziali negli Usa e il referendum sulla Brexit nel Regno Unito. Il 2016 è anche l’anno in cui si è diffusa sempre più, a livello globale, l’espressione “fake news”.

Il 20 ottobre 2016, BuzzFeed ha pubblicato un’inchiesta sulla diffusione di notizie false tramite Facebook. Un primo dato interessante riguarda i bacini di utenza delle pagine legate alle testate di levatura internazionale. I giornali neutrali risultavano avere un numero di fan inferiore ai due milioni. Al contrario, le pagine palesemente schierate riscuotevano un successo decisamente maggiore: più di quattro milioni i fan di Occupy Democrats, pagina schierata per il candidato democratico, mentre il Right Wing News contava tre milioni e mezzo di iscritti. La seconda considerazione riguarda la sopracitata radicalizzazione dovuta al fenomeno delle “camere dell’eco”.

Gli utenti di queste pagine palesemente schierate, se confrontati con l’utenza media che segue le grandi testate internazionali, tendono maggiormente a interagire con notizie false, soprattutto se accompagnate alla denuncia degli avversari politici.

A questa inchiesta segue la denuncia da parte del Guardian, che incolpa Facebook di favorire la diffusione di informazioni false. L’articolo in questione riporta le affermazioni di illustri studiosi e di personaggi politici sul tema delle fake news, della polarizzazione della politica e del contagio emozionale.

La mobilitazione dei cittadini macedoni in favore di Donald Trump e il caso di Web365

Veles è una piccola cittadina di cinquantamila anime situata nell’area centrale della Repubblica della Macedonia del Nord. Nel 2016, Veles finisce al centro di un’inchiesta riguardante la campagna elettorale di Donald Trump. Circa centocinquanta domini appartenenti a cittadini (perlopiù adolescenti) di Veles sono stati impiegati per la diffusione di notizie giornalistiche a sostegno del candidato repubblicano. Si tratta di notizie sensazionalistiche, con titoli accattivanti, scritte in pochi minuti e caricate velocemente in rete.

Uno di questi ragazzi, Alex, ha dichiarato al Guardian di essere stato l’ideatore del progetto pro-Trump. Ha altresì ammesso di aver assunto dodici redattori di madrelingua inglese affinché scrivessero articoli completamente inventati e confezionati ad arte per screditare Hillary Clinton e gli avversari democratici. Per quanto riguarda gli introiti, Alex sostiene che questi dipendessero unicamente dai banner pubblicitari ospitati sui loro siti.

La ricostruzione di Alex non ha convinto tutti, tanto che Craig Timberg, sul Washington Post, chiamò in causa la Russia di Putin. Un accesso dibattito è seguito alla denuncia, ma una cosa è certa: nonostante le previsioni di voto dei maggiori colossi dell’informazione, Trump è riuscito a battere la favorita Clinton.

A tal proposito, si potrebbe ricordare l’inchiesta di BuzzFeed del 2017, la quale denunciò il fatto che una piccola società a conduzione familiare, Web365, avrebbe posseduto e coordinato ben centosettantacinque blog assiduamente impegnati nella condivisione di notizie distorte di carattere islamofobico e anti-immigrazione. In particolare, due siti che facevano capo a Web365, DirettaNews e iNews24, ottenevano nel 2017 oltre venticinque milioni di interazioni (quelle del Corriere della Sera, per esempio, si attestavano sui ventisette milioni). Prima BuzzFeed, poi il New York Times, hanno messo in guardia l’Italia sul rischio di una possibile interferenza in vista delle elezioni del 2018 (quelle che hanno portato al governo gialloverde del Conte I).

Steve Bannon, l’alfiere di Donald Trump a capo di Breitbart

In uno studio pubblicato da Yochai Benkler (professore di diritto a Harvard) e collaboratori sul Columbia Journalism Review nel 2017, è stato analizzato il fenomeno della diffusione di notizie false tramite i social network e i motori di ricerca come Google, con un’attenzione diretta alla campagna elettorale statunitense del 2016. Benkler, invece di puntare il dito contro gli algoritmi che governano il mondo dell’informazione digitale, focalizza la sua attenzione sull’asimmetria che divide la polarizzazione tra destra e sinistra negli Usa.

I post di Trump o della Clinton sono stati condivisi su Facebook e su Twitter con una proporzione di quattro a uno dagli utenti maggiormente schierati politicamente (la proporzione diventa di tre a due per l’utenza “moderata”). Questo dato ci dice che i sostenitori di Trump sarebbero più attivi sui social network rispetto ai sostenitori radicali democratici.

Ma la differenza significativa evidenziata dallo studio di Benkler riguarda non tanto i fruitori, quanto i produttori dell’informazione politica. I media di riferimento dell’elettorato democratico coincidono con gli storici colossi dell’informazione statunitense: New York Times, Washington Post, CNN, Guardian, Politico, Huffington Post. Ognuno di questi giornali opera in un regime di sostanziale indipendenza e autonomia. Analizzando i flussi di notizie e i dati relativi alle interazioni degli utenti, nessuno di questi giornali riesce a proporsi come guida dell’informazione orientata a sinistra.

A destra, invece, la situazione è ben diversa. Nel mare magnum dell’informazione rivolta alla fazione repubblicana, una posizione di spicco è assunta da Breitbart, sito di informazione allora diretto da Steve Bannon.

Foto: https://live.staticflickr.com/2888/33118161265_e9fc8a69a3_b.jpg

Leggi anche: The Movement: l’internazionale sovranista.

La strategia di Bannon

Secondo l’analisi di Benkler, l’informazione filo-repubblicana appare decisamente più centralizzata. Breitbart avrebbe avuto il ruolo sia di coordinare la diffusione di notizie circolanti su piccoli blog, come quello di Veles, sia di attaccare e screditare i grandi media storicamente filo-repubblicani (ma non necessariamente trumpiani) come Fox News. La posizione di Breitbart, infatti, non risulta semplicemente repubblicana, ma incondizionatamente pro-Trump. Tra i bersagli dei suoi attacchi troviamo anche i candidati repubblicani alle primarie del 2016, Jeb Bush e Marco Rubio.

Una caratteristica importante riguarda inoltre la natura degli articoli condivisi su Breitbart. Più che fake news, sarebbe opportuno parlare di disinformazione. Così si legge nello studio pubblicato dal Columbia Journalist Review: «Molti degli articoli più condivisi devono essere interpretati come disinformazione, piuttosto che come “notizie false” nel senso di falsità completamente inventate: l’inserzione di verità, o di verità parziali, in un messaggio che è nella sua essenza un inganno». Questo per soddisfare quello che in psicologia si definisce principio della minima controintuitività. Gli elementi minimamente controintuitivi, che ci sorprendono ma non al punto da risultare bizzarri o totalmente fantasiosi, sono quelli che catturano maggiormente la nostra attenzione (e che, pertanto, ricordiamo meglio).

Quello che Bannon sembrerebbe aver creato è in sostanza un ecosistema sociale. La rappresentazione del mondo è filtrata attraverso una incessante successione di notizie parziali, non verificate e che si discostano progressivamente dal vero. Tutto ciò è agevolato dalla totale assenza di peer review. Alla base di questo ecosistema vi è l’assunto che vuole il mainstream tradizionale totalmente asservito a poteri forti e oscuri.

I lettori di questi siti di informazione sono progressivamente persuasi del fatto che, al di fuori di questo particolare mondo dell’informazione, i sopracitati poteri forti fanno e faranno di tutto per screditare le notizie che hanno appena appreso. Questi lettori sanno che solo all’interno di questo particolare mondo dell’informazione potranno conoscere verità che, altrove, non vengono e non verranno mai svelate.

Leggi anche: Perché è giusto bannare Trump.

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