Lo scorso 16 febbraio il parlamento francese ha approvato la prima stesura della controversa legge contro il cosiddetto separatismo islamico. La proposta, fortemente sostenuta dal presidente Macron, intende combattere il fenomeno per cui alcune comunità islamiche presenti sul territorio francese porterebbero avanti «la volontà di non vivere insieme, di non fare più parte della Repubblica nel nome di una religione, l’Islam».
Come molte altre ex potenze coloniali, la Francia ha da sempre un costante flusso migratorio in entrata, dal Nordafrica e da Paesi a maggioranza musulmana.
L’approccio francese nei confronti dell’immigrazione è storicamente votato all’inclusivismo, con il dichiarato obiettivo di rendere francese chi vive in Francia. Si concretizza per i più giovani attraverso l’istruzione, mentre per tutti gli altri attraverso una snella politica di acquisizione della cittadinanza. Sono infatti richiesti cinque anni per la naturalizzazione di chiunque si stabilisca in Francia. Per i loro figli, invece, la cittadinanza si ottiene attraverso uno ius soli temperato. Al compimento del diciottesimo anno d’età e avendo vissuto in Francia per almeno cinque anni, si può acquisire la cittadinanza con una procedura piuttosto semplice.
I valori che guidano le istituzioni francesi nell’accoglienza sono, idealmente, sempre gli stessi dai tempi della Rivoluzione: Liberté, Égalité, Fraternité. Qualsiasi francese è quindi un cittadino uguale a tutti gli altri, a prescindere dalla sua cultura di provenienza, che è comunque rispettata e a cui non viene chiesto di rinunciare.
Ipoteticamente, l’integrazione prevede un certo grado di francesizzazione da parte di chi chiede la cittadinanza. Si passa dall’uso fluente della lingua alla conoscenza della cultura francese fino all’accettazione dei valori repubblicani, tendendo idealmente a far sì che le famiglie di immigrati possano nel tempo raggiungere livelli di vita adeguati, al pari di qualsiasi altro francese. La pratica però si dimostra purtroppo diversa dalla teoria, alimentando il fenomeno percepito come separatismo islamico.
Che le famiglie immigrate riescano davvero a raggiungere questo benessere è tutt’altro che automatico. Per gli immigrati di prima generazione il livello di vita medio si attesta intorno al 30% in meno rispetto a un francese d’origine. Questo si riduce al 12% per le seconde generazioni, persone quindi nate e cresciute in Francia.
Questo scarto infatti, seppur ridotto, perdura. Da una parte va riconosciuto al sistema francese di riuscire a mantenerlo a un livello meno impattante rispetto a quanto avviene in altri Paesi. Dall’altra è comunque sintomo di un problema di fondo nell’accesso al benessere da parte dei nuovi francesi. La diatriba sulle cause di questa discrepanza è cruciale per la comprensione del cosiddetto separatismo islamico.
Se infatti buona parte delle persone che discendono da immigrati riesce alla lunga a integrarsi nel tessuto sociale ed economico francese, è altrettanto evidente che alcune comunità si rivelano particolarmente refrattarie, tanto da diventare terreno fertile per l’integralismo islamico. Perché?
Secondo alcuni è proprio per l’incapacità del sistema nel dare a tutti le stesse opportunità. Si creano così sacche di povertà e degrado nelle quali la disperazione di molti giovani trova sfogo proprio nell’integralismo islamico. Secondo altri la responsabilità più che del sistema è di quelle comunità musulmane composte da immigrati di prima, seconda o addirittura terza generazione che scelgono di autoisolarsi.
Un fenomeno, quest’ultimo, che il presidente Macron ha appunto definito “separatismo”.
Se andiamo a guardare ai – purtroppo – numerosi attentati di matrice islamica che si sono susseguiti in territorio francese negli ultimi anni, vediamo che un numero cospicuo di attentatori è nato e cresciuto in Francia o comunque in un Paese europeo.
Un esempio eclatante è tra gli esecutori degli attentati coordinati che colpirono Parigi il 13 novembre 2015. Samy Amimour era uno degli attentatori che assaltarono il Bataclan e fu il primo a morire sotto i colpi delle forze di sicurezza francesi. Amimour era un insospettabile, nato e cresciuto in Francia e figlio di una famiglia di immigrati algerini definiti «ampiamente occidentalizzati» e pertanto perfettamente integrati. La madre è un’attivista femminista di origini berbere, il padre si occupa di import-export tra Francia e Belgio. Nient’altro che una normalissima famiglia francesizzata. Nonostante questo, Amimour nel 2012 cominciò a vestirsi da salafita e a interessarsi allo Stato Islamico: le conseguenze di questa sua scelta sono passate alla storia.
È naturale chiedersi cosa può fare lo Stato per evitare che cittadini cresciuti fin da bambini con valori occidentali scelgano poi di lasciarsi tutto alle spalle per radicalizzarsi.
L’approccio a questo problema è duplice. Da una parte è necessario identificare e risolvere le cause che generano risentimento verso le istituzioni e l’Occidente in generale, dall’altra impedire che le conseguenze di questo odio si concretizzino. Se delle conseguenze se ne occupano fondamentalmente le forze dell’ordine e dell’antiterrorismo, delle cause la responsabilità è squisitamente la politica. Su questo aspetto la realtà viene letta in maniera diametralmente opposta dalle varie forze politiche. C’è chi ritiene che la responsabilità sia, a monte, di un sistema che non riesce a garantire a queste persone un’alternativa migliore a livello economico, sociale e valoriale da rendere la radicalizzazione meno attraente. C’è poi chi individua invece la responsabilità a valle, concentrandola su determinate correnti religiose da osteggiare e, nelle interpretazioni più estreme, da allontanare dal territorio francese.
La legge sul separatismo islamico portata avanti dal governo segue questo secondo filone e identifica il problema nel rifiuto all’integrazione da parte di alcune specifiche comunità religiose.
Si propone di combatterlo attraverso vari provvedimenti, tra cui l’obbligo per le associazioni di accettare i «valori repubblicani» della Francia e di tracciare i movimenti di denaro e di comunicare qualsiasi donazione ricevuta superiore ai diecimila euro, che saranno tassate se provenienti dall’estero; l’inasprimento dei criteri che permettono di togliere dalla scuola pubblica i figli sopra i tre anni per istruirli in casa, per evitare che siano poi indottrinati presso strutture islamiste; l’accelerazione delle tempistiche processuali per i crimini connessi all’hate speech sui social; la tolleranza zero verso i medici che praticano esami per attestare la verginità femminile; il divieto per le autorità di rilasciare permessi di soggiorno a richiedenti poligami; il rafforzamento dei poteri d’indagine degli ufficiali addetti allo stato civile al fine di smascherare i matrimoni forzati.
Il testo della legge contro il separatismo islamico ha suscitato polemiche da ogni parte.
Per alcuni si tratta di una foglia di fico per coprire le cause reali di questo malessere, un atteggiamento figlio di un modo vetusto di concepire l’immigrazione per il quale la volontà di essere assimilati sarebbe un atto dovuto, automatico, e il suo rifiuto vada impedito o in alternativa punito.
Per i socialisti si tratta di un duro attacco in generale alla comunità musulmana francese piuttosto che all’integralismo islamista. Identificano nel testo presentato un chiaro intento discriminatorio confezionato in maniera sartoriale al fine di colpire una singola religione.
La destra repubblicana considera il testo troppo molle, non portando a nessun reale passo avanti nella lotta all’integralismo islamico. Marine Le Pen ha votato solamente alcuni articoli. Il suo obiettivo dichiarato è di inserire, durante il prossimo voto al senato, il divieto di portare il velo in qualsiasi luogo pubblico.
Per chiunque non sia francese è difficile comprendere la reale portata della discussione che sta infervorando la politica d’oltralpe. La comunità musulmana ha una lunga e consolidata storia nel tessuto sociale francese, più che in qualsiasi altro Paese europeo. Ha una massa tale da renderla una parte importante della società. La direzione che il Paese deciderà di intraprendere influenzerà la struttura sociale di una nazione fondamentale nello scacchiere europeo, con potenziali strappi che potrebbero avere conseguenze a catena.
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