«… quindi permettimi di aggiungere che è un grande onore per me conoscerti e che puoi chiamarmi V». Termina così il celebre monologo di allitterazioni pronunciato da V, enigmatico protagonista di V per vendetta. Il film, diretto da James McTeigue, compie quindici anni il prossimo 17 marzo. Un’occasione per ripercorrerne la storia e, soprattutto, l’impatto sull’immaginario. Che, per quanto non cessi di esistere, si è modificato nel corso del tempo.
In principio era Guy Fawkes. Non solo lui, ovviamente. Bisogna essere almeno in gruppo per organizzare una congiura ai danni della Corona inglese. Corre l’anno 1605: in Inghilterra regna Giacomo I, sovrano protestante di cui si temono sia la fede che le tendenze assolutiste. Il 5 novembre è prevista la cerimonia d’apertura in Parlamento, al cospetto dell’intero governo e dei Reali. La notte precedente le guardie, previa segnalazione via lettera, trovano trentasei barili di polvere esplosiva nei sotterranei di Westminster. Sono di un uomo che afferma di chiamarsi John Johnson. Si tratta in realtà di Guy Fawkes, militare cattolico che insieme ad altri (cinque in origine) ha ordito quella che passerà alla storia come Congiura delle polveri o dei gesuiti.
Il tentato colpo di Stato si paga caro. Fawkes viene condotto alla Torre di Londra, dove ammette senza mezzi termini di volere far saltare in aria il Parlamento. Dopo atroci torture, Fawkes si trova costretto a rivelare i nomi dei colleghi. Lui e altri sette vengono quindi condannati a morte mediante impiccagione, sventramento e squartamento. Hanged, drawn and quartered, la pena per alto tradimento prevista dal codice inglese. «Ucciderai solo un uomo», si dice, e così è andata: la maschera rappresentante il volto di Fawkes gli sopravvive, così come la sua leggenda. Da allora, il 5 novembre di ogni anno in Inghilterra si celebra la Bonfire Night, letteralmente «Notte dei falò». Vi si ringrazia Dio per aver salvato la Corona: una ricorrenza filo-monarchica, evidentemente. Com’è, allora, che il volto di Fawkes finisce per essere celebrato, quasi fosse quello di Che Guevara?
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I simboli vanno spesso per la propria strada. Che, si sa, spesso risulta inaspettata. Basti pensare alla croce cui venne condannato Gesù Cristo, dapprima vista con spavento dai primi adepti e solo dopo diventata simbolo universale della religione cristiana. Alle volte è sono il tempo e la società a determinare i simboli, altre volte un artista le cui creazioni sono abbastanza abbastanza suggestive da imporsi come moneta corrente. È questo il caso di Alan Moore, autore di graphic novel, anarchico e, chissà quanto controvoglia, guru per alcuni.
Moore nel 1988 rivoluziona il taglio narrativo della DC Comics con Batman. The Killing Joke. Una storia spietata, cruda, che racconta le origini di Joker trasformandolo, da trickster giullaresco quale era, in un uomo che si è fatto mostro perché, di base, la società che Batman incarna e difende è altrettanto mostruosa. Due anni prima, dalla penna di Moore, nascevano anche i primi episodi di Watchmen. Dopo il quale, il fumetto sui supereroi non sarà più lo stesso. Moore inventa un mondo distopico orribile tanto quanto quello reale. Gli USA, qui, hanno vinto la guerra in Vietnam e i supereroi sono più simili a delle celebrità decadute. Squassate, chi più e chi meno, dalle colpe, dal denaro, dalla violenza.
«Si chiama sogno americano perché devi essere addormentato per crederci», diceva George Carlin. E infatti l’american dream di Moore è un incubo figlio della Guerra Fredda. Una continua promessa di apocalisse da cui sgorga quel fascismo insito nella figura del supereroe. Moore a questo punto della sua carriera ha disinnescato i simboli della pop culture occidentale. Già prima, però, aveva piazzato dinamite pronta ad esplodere: quella dell’anarchia.
Nel 1982 Moore firma infatti, con i disegni di David Lloyd, V for Vendetta. Il suo modello non è l’universo del fumetto americano, ma George Orwell. Inglese, come lui. E come 1984, romanzo dove il Potere corre attraverso il possesso dei media, della propaganda, dei corpi stessi. Il Potere ha occhi ovunque, e chiunque diventa a propria volta occhio del Potere. La politica è dominio della scienza, del suo irrinunciabile nocciolo ideologico sottoposto all’establishment. V è un reietto dell’ordine sociale che decide di portare il disordine. Facendo saltare, innanzitutto, i palazzi dove il Potere si fa architettura. Indossa la maschera di Guy Fawkes, il dinamitardo che per primo si oppose all’assolutismo dei potenti. Il ghigno beffardo non è quello mefistofelico che sarà di Joker, ma è un simulacro bianco che tutti possono vestire. Perché V, come Fawkes, è un uomo solo, ma la sua vendetta trascende il personale.
Chiunque può indossarne la maschera, quindi, e restituire al 5 novembre la rivoluzione tentata quasi quattro secoli e mezzo prima. Tutti possono essere V/Fawkes. Questo sembra dire il film del 2006, che si apre con la soggettiva di V intento a indossare la maschera e si chiude con la panoramica dell’intera popolazione pronta a farlo. La versione cinematografica, criticata aspramente da Moore, si concede più di una volta a Hollywood. Lo fa edulcorando alcuni passaggi, aggiungendone altri. Il messaggio originale però non viene meno.
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A sceneggiarlo sono due autrici d’eccezione, le sorelle Lilly e Lana Wachowski. Della saga di Matrix ritroviamo anche il mitico agente Smith: Hugo Weaving impersona proprio V, affiancato da interpreti del calibro di Natalie Portman e John Hurt. Il film, che incassa nel mondo 132,5 milioni di dollari, ha due effetti immediati. Primo, rendere l’Ouverture 1812 di Pëtr Il’ič Čajkovskij un brano celebre quanto un pezzo radiofonico. Secondo, riportare in auge la maschera di Fawkes.
Il volto bianco di Fawkes, i suoi occhi a fessura e i baffi diventano ora più legati al personaggio di V che a quello storico del XVII secolo. È la rete di hacker nota come Anonymous, fondata nel 2003, a farne per prima un proprio segno distintivo. Attorno al cambio di decennio diventa impossibile non notare i vari emuli di V dispersi nelle folle in rivolta: primavera araba, Indignados, Occupy Wall Street. Un mondo vario, accomunato dal denominatore del web come strumento per creare aggregazione e diffondere idee.
Gli anni passano, e la maschera compare nelle manifestazioni di estrema destra, fa capolino fra i complottisti di varia natura e si nota, infine, fra gli assalitori a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Il sorriso comunitario dell’anarchia è fatto proprio dai QAnon. C’è chi sostiene che, come simbolo, la maschera di V non sia invecchiata bene. Il mondo degli anni Ottanta è diverso da quello dei primi anni Duemila o degli anni Venti del terzo millennio. Un certo bagaglio lessicale proprio di chi stava all’opposizione sarebbe passato nelle mani di nuovi potenti, e con esso effigi e simulacri.
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Si potrebbero criticare le scarse doti profetiche di V per Vendetta, dato alle stampe l’anno in cui Margaret Thatcher faceva guerra alle Falkland e diventato appannaggio, decenni dopo, dei proud boys di Donald Trump. Al pari, si direbbe, della folkloristica pelliccia da sciamano di Jake Angeli, ormai impressa nella nostra memoria recente.
È raro, tuttavia, che le distopie siano esatte previsioni del futuro. Sarebbe anzi sbagliato pretenderlo. Più spesso, infatti, sono cronache di infinite possibilità del nostro mondo. Sono già accadute, o accadono, nel momento in cui le leggiamo. In Farenheit 451 (1953), per esempio, Ray Bradbury concepisce il futuro narrativo attorno all’idea di un regime che dà alle fiamme i libri: usanza in vigore soltanto fino a qualche anno prima nella Germania di Adolf Hitler. Non è certo colpa di Alan Moore, o dei realizzatori del film, se V per Vendetta è caduto in mani inaspettate. I simboli, si diceva, vanno per la propria strada. Ciò che la maschera di Fawkes ha colto è stato puntuale ed effettivo sia negli anni Ottanta sia nel 2006. Ha raccontato paure, necessità, tensioni incapaci di restare sotterranee.
Questo simbolo è sorto da un fumetto e da un film, per poi riversarsi nelle piazze, indossato da centinaia di persone. Non sarà un caso che, a cavallo fra 2019 e 2020, sia accaduto lo stesso con un altro antieroe cinematografico: il Joker di Joaquin Phoenix. Dallo schermo alle barricate. In principio, però, c’è di nuovo Moore con il già menzionato The Killing Joke, fonte dichiarata del film di Todd Phillips. È fin troppo evidente il parallelo fra la maschera di Fawkes e il cerone bianco di Joker: in entrambi i film, così come nella cronaca reale, la folla ne fa un proprio simbolo. Come sopra, Joker non può dirsi un film profetico solo perché troppo puntuale: arriva nell’anno di Black Lives Matter, delle rivolte in America Latina. I simboli sopravvivono alle persone, e il conflitto sopravvie a tutto.
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