«Chi lo dice, sa di esserlo. Gli auguro buona salute».– Vladimir Putin
La frase che vedete sopra l’ha detta Vladimir Putin dopo un silenzio stampa durato un’intera notte. «Un killer» l’ha definito il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Un attacco senza precedenti quello del leader del mondo libero. Mosca ha convocato il suo ambasciatore a Washington per chiedergli di delineare le nuove priorità nelle relazioni con gli Stati Uniti. Non un richiamo ufficiale che presuppone la sospensione (o rottura) dei rapporti diplomatici tra Stati, come qualcuno ha erroneamente segnalato. Una mossa da pesi piuma, alla luce di un’affermazione forte e significativa. Perché Joe Biden ha chiamato il suo avversario assassino? E per quale motivo Putin non ha potuto, o forse non ha voluto, rispondere a questa provocazione con un gesto parimenti eloquente, frasi da prima elementare a parte?
Durante l’intervista con il giornalista George Stephanopoulos, al Presidente americano è stato chiesto se pensasse che il suo omologo russo fosse un killer. Biden inizialmente si è mostrato indeciso, poi ha borbottato qualcosa e alla fine ha risposto che sì, Vladimir Putin è un killer. Ma mentre negli Stati Uniti quest’affermazione non è finita sulle prime pagine dei giornali, in Italia è scoppiata una crisi dentro le redazioni dei quotidiani. Innanzitutto, un errore di traduzione di un dispaccio dell’agenzia Reuters ha trasformato “La Russia convoca l’ambasciatore per consultazioni” in “La Russia richiama il suo ambasciatore”. Una differenza abissale nel contesto delle relazioni internazionali. Qualcuno si è addirittura azzardato a definire i rapporti tra i due Paesi «in un vicolo cieco», come se una delle due cancellerie avesse dato l’autorizzazione per un attacco nucleare. Insomma, i soliti, noiosi, presunti venti di guerra che alla fine della giornata si riducono a una tranquilla bonaccia di mezza estate.
Indipendentemente però dal sensazionalismo mediatico, la frase di Biden stimola una riflessione importante su cosa sia Vladimir Putin. Per alcuni è il nuovo zar, per altri un dittatore, mentre per molti analisti è soltanto uno dei molteplici gangli del vasto sistema di potere in vigore da vent’anni in Russia. È davvero un assassino? A meno che il Cremlino non tenga nascosta una recondita passione omicida del suo occupante, no, Putin non è fisicamente un killer. Insomma, non ha mai ammazzato nessuno con le sue mani. Allora si apre, come se fosse una matrioska, un altro strato: che cosa rende un killer un killer? È la brutalità? L’efferatezza? La cattiveria? O forse c’entrano altri aspetti meno concreti e più astratti, come la responsabilità morale e giuridica, la premeditazione e il dolo? Se si considerano affidabili questi ultimi indicatori, il quadro che si prefigura è senz’altro inquietante.
Da quando è diventato Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin ha, in ordine sparso:
- ordinato la cattura ed eventuale morte dei giornalisti russi critici del suo regime;
- ordinato l’avvelenamento da polonio radioattivo (spruzzato in una tazza di tè) di una spia russa;
- tentato di avvelenare con gas nervino un ex 007 russo mentre si trovava legalmente sul suolo di un Paese NATO;
- ordinato l’abbattimento di un aereo con a bordo civili;
- ordinato bombardamenti a tappeto di ospedali, scuole e altri obiettivi non militari in Siria a sostegno del sanguinario dittatore Bashar al-Assad.
A leggere questa ricca lista di trofei e quasi-trofei accumulati nel corso degli anni, la prima reazione è scioccante o, come direbbero quelli bravi: «First reaction: shock». In ogni caso c’è un elemento che, purtroppo, lega Putin ad altri leader mondiali: la spietatezza. Esiste una zona grigia che tutti i capi di governo contemporanei, almeno una volta nella loro carriera politica, hanno toccato. Basti pensare alle atrocità commesse dagli americani in Iraq e in Afghanistan durante l’amministrazione Bush-Cheney, una delle pagine più tristi dell’umanità. La riabilitazione, tuttavia, non è una pratica che dovrebbe essere così diffusa, né nell’opinione pubblica né tantomeno tra storici e studiosi, i quali poi plasmano le posizioni generali del dibattito pubblico che dominano le democrazie moderne.
Può anche darsi che il tempismo delle dichiarazioni di Biden non fosse quello giusto. Era una gaffe, chiara, evidente, lampante, da parte del re delle gaffe. Non c’è un genio della comunicazione alla Casa Bianca. È da due mesi che il Presidente non parla ai giornalisti in conferenza stampa. Nessuno però dovrebbe aspettarsi la mano tesa di Washington dopo la pubblicazione dell’ennesimo rapporto sulle interferenze russe e sulle taglie sui soldati americani in Afghanistan. I mezzi usati dagli USA saranno sempre quelli canonici della diplomazia, e Biden l’ha voluto ricordare sia a Putin che alla comunità internazionale nel primo giorno del suo mandato, ma la forza sta anche nei toni che vengono usati con l’opinione pubblica. E il leader dell’Occidente libero non commette nessuno scivolone strategico quando riafferma le differenze tra l’Alleanza atlantica e la microgalassia di finti indipendentismi filorussi frutto dell’innata sindrome di accerchiamento dell’orso russo. Sono due modelli politici, economici e sociali incompatibili fra di loro. Sì, la cooperazione e la collaborazione devono essere la base di un mondo multilaterale, ma si tratta di due direttrici che si muovono su livelli paralleli e distinti rispetto al linguaggio della politica del botta e risposta. Chi usa l’omicidio come arma di politica estera è a tutti gli effetti un assassino.