Vittorio Prato, baritono riconosciuto a livello internazionale come uno dei più interessanti della sua generazione, ha da poco pubblicato un nuovo album, Songs from far away. Il disco si ispira al lavoro di Francesco Paolo Tosti, compositore vissuto nel XIX secolo tra l’Italia e il Regno Unito, di cui Vittorio Prato interpreta le canzoni popolari scritte in inglese.
L’album, che si avvale dell’accompagnamento al pianoforte di Vincenzo Scalera, è accompagnato da un nutrito volume in cui il baritono ripercorre la sua vita artistica e personale, parallelamente a quella del compositore. Abbiamo intervistato Vittorio Prato sul nuovo album, il difficile momento che sta passando l’opera da un anno e il legame con Francesco Paolo Tosti.
Cosa accomuna un giovane baritono del 2021 con un compositore “fuorisede” d’altri tempi vissuto oltre un secolo fa?
«L’idea di scrivere qualcosa di me e della mia vita d’artista nasce proprio approfondendo il percorso della vita di Francesco Paolo Tosti. Ci accomuna la stessa necessità di inseguire una meta, di provare a realizzare un sogno, anche accettando di vivere lontano dagli affetti più cari e dai luoghi amati. Ci accomuna una vita ricca di sacrifici ma piena di soddisfazioni.
Ciò accade al compositore che lascia Ortona, studia a Napoli, si trasferisce a Roma e trova a Londra una seconda patria. Accade lo stesso anche a me, che parto da Lecce alla volta di Bologna e da qui, con l’avvio della mia professione di cantante lirico, finisco per girare il mondo, esibendomi nei teatri che mi scritturano per periodi di tre settimane, un mese e a volte anche due. Io e il compositore, nonostante ci separi temporalmente più di un secolo, possiamo vantare una vita ricca d’incontri, di confronti con la gente più disparata ed esperienze che arricchiscono».
Nel libro parli dell’importanza di osare. Qual è stato, professionalmente, l’azzardo di cui vai più fiero?
«Azzardare è una conditio sine qua non della mia professione. Un cantante d’opera è sempre sotto giudizio, in ogni performance deve dare il massimo. Deve essere in forma fisicamente, deve sfidare le proprie paure di un debutto in un ruolo difficile e talvolta nel teatro di una città dove non si è mai esibito prima.
Ricordo in particolare di aver “osato” sfidare la sorte quando una delle primissime audizioni mi portò a Lione. Ero in viaggio e, partito da Bologna, il treno si fermò improvvisamente a Piacenza per quello che sarebbe diventato il famoso blackout del 2003. Se non ricordo male, questo fu l’unico caso mai avvenuto prima di interruzione dell’energia elettrica a livello nazionale. Ero destinato a non arrivare a Lione ma non ero del tutto demoralizzato.
Mi feci coraggio e chiesi a un mio caro amico di prendermi da Piacenza e portarmi con la sua auto in Francia! Dopo diverse ore di viaggio, arrivai molto tardi a Lione, in tempo per dormire e affrontare l’audizione del giorno dopo. Ero l’unico italiano tra i tanti concorrenti da tutta Europa e vinsi il ruolo titolo nell’Orfeo di Monteverdi. Un’opera che, ironia della sorte, è considerata la prima opera lirica della storia e che nel 1607 segna l’inizio di questa forma di “recitar cantando”. Io iniziavo la mia carriera».
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Qual è il ruolo a cui sei più legato? E quello che è ancora un sogno nel cassetto?
«Mi sento molto legato proprio al ruolo di Orfeo, nell’opera musicata da Monteverdi su testo di Alessandro Striggio, e a quello di Don Giovanni, opera che fa parte della trilogia che vede la collaborazione dei geni Wolfgang Amadeus Mozart e Lorenzo Da Ponte. Siamo di fronte a due archetipi che racchiudono la storia dell’essere umano, coi quali mi sono più volte cimentato. Si tratta di personaggi che richiedono un grande approfondimento a livello teatrale. Non basta solo cantarli bene, bisogna recitarli con molta consapevolezza. Nel futuro attendo di aprire il cassetto di un sogno: cantare il Macbeth di Verdi sarebbe molto emozionante».
La seconda traccia, We watch and wait, sembra quasi un’istantanea della preoccupazione e del senso di mancanza che viviamo tutti. Come ha vissuto Vittorio Prato quest’ultimo anno, professionalmente e personalmente?
«We watch and wait è una canzone che descrive una donna, madre, che attende il ritorno dell’uomo che ama. Quasi un’illusione, un sogno che probabilmente non si avvererà mai. Questa è la stessa attesa di tutti noi, alla ricerca di una cara normalità che mi auguro a breve tornerà.
Nei momenti difficili ci aiuta sperare, avere ottimismo e fiducia nella vita. Se l’uomo riesce ad adattarsi facilmente a tutto, anche al benessere, non deve nemmeno dimenticare i periodi in cui la vita era ancora messa più a rischio di quanto non faccia oggi un virus. Mi riferisco alle vere guerre combattute sui campi: basta leggere i libri o vedere un film sull’antica Roma, sul Medioevo, sulla prima e seconda guerra mondiale… E non parliamo delle varie pestilenze nei secoli. Personalmente ho sfruttato tanto il tempo libero di quest’ultimo anno per riflettere e fare le cose che non facevo da tempo, quando ero preso dal turbinio della quotidianità.
Professionalmente ho avuto la fortuna di lavorare in alcune produzioni dei festival estivi o dei teatri, con o senza pubblico. Esibirmi mi ha dato una boccata di ossigeno, nonostante la difficoltà di lavorare con tanti accorgimenti e talvolta con uno stress maggiore per quella continua precarietà. La preoccupazione era risultare positivo al Covid-19 e vedere vanificato un periodo di prove e di studio. Non sono uno che si abbatte facilmente e, oltre alle belle persone di cui mi circondo, anche la musica è un valido aiuto al sollievo dell’anima».
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Ho letto che sei impegnato all’estero al momento. Che prospettive lavorative hai in Italia?
«Adesso mi trovo a Bruxelles, al Theatre de La Monnaie, per interpretare lo splendido ruolo di Alfonso XI re di Castiglia, in un concerto in streaming della Favorita di Donizetti, in sostituzione di una grande produzione che era prevista prima del Covid-19. Essendo stravolti tutti i cartelloni dei teatri, nel futuro avrei diversi ingaggi (uso il condizionale), alcuni dei quali in attesa di essere confermati, altri ripresi dopo una sospensione. Cito i teatri di Bologna, Palermo, Firenze, Verona, e altre produzioni all’estero, tra cui anche il mio ritorno a Tokyo con il ruolo di Belcore ne L’Elisir d’amore».
Cosa pensi della cultura in streaming? L’opera può sopravvivere privata della dimensione live o si tratta di un “dispositivo salvavita”?
«L’opera è teatro in musica e come ogni forma d’arte performativa richiede un rapporto col pubblico, uno scambio attivo di energia, altrimenti è un surrogato. Che, tengo a precisare, va bene come coadiuvante alla cura ma non è la medicina. Sarà una visione troppo romantica della vita? Probabilmente lo è, sebbene consideri il teatro, la musica, l’opera e la danza, come medicine per l’incurabile mal di vivere.
Non si può sostituire la dimensione live con delle registrazioni, con un filtro di uno schermo. Detto questo, nelle lunghe giornate arriva anche il momento di mettersi seduto sulla poltrona e di rilassarsi ascoltando Songs from far away di Francesco Paolo Tosti, a cui ho dedicato il mio ultimo lavoro, frutto di passione, amore e totale dedizione verso il canto».