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Spettacolo

WandaVision è la mediocrità che ci meritiamo

Published by
Paolo Cannazza

WandaVision è l’ultima serie evento Marvel. Un blockbuster ideato per perseguire nel successo della piattaforma di streaming targata Disney, Disney+Lo show è stato acclamato da molti come un piccolo capolavoro pieno di momenti memorabili. WandaVision è un papocchio creato apposta per accontentare i palati più mediocri, per essere un godibile pieno nulla. Una serie di elementi alla rinfusa che accompagnano l’assenza di un qualunque spunto innovatore. Pastiche nel senso jamesoniano del termine. Un tripudio postmoderno senza alcun mordente in cui è impossibile rilevare un messaggio che non sia quello puramente mercantile. 

Il minor comun denominatore viene usato per conquistare il pubblico, sperando che quest’ultimo se la beva senza fare troppe storie. WandaVision è la Maniera, un timore artistico e commerciale incapace di innovare. Non riesce a essere null’altro che ciò che copia. Un quadro piacevole alla vista, ma svuotato di qualunque potenziale elevazione.

Come tutto ebbe inizio

Monica Rambeau interpretata da Teyonah Parris.

La premessa – l’articolo non avrà spoiler per chi voglia guardare questa ciofeca – è interessante. Per qualche motivo Wanda Maximoff (Elizabeth Olsen) si trova a vivere la vita dei suoi sogni col marito/compagno Visione (Paul Bettany). Le situazioni vissute dalla coppia saranno direttamente ispirate a varie serie TV americane. Una cavalcata in mezzo alla cultura pop statunitense degli ultimi cinquant’anni.

Concetto, questo, che apre però tutta una serie di problemi. Per esempio, il robot nato dalla materializzazioni fisica di un’intelligenza artificiale ha i gioielli di famiglia? Perché a un certo punto Wanda subisce le conseguenza di un eventuale copulazione. Siamo sicuri che sia questo il messaggio che la Disney voglia mandare al pubblico?

Detto questo, l’integrazione delle serie TV citate è ottima, c’è un’evidente cura per il dettaglio e un interesse a portare lo spettatore quanto più possibile vicino agli originali. Si vuole calare chi guarda nel contesto della citazione, un’idea lodevole e che distingue i primi episodi della serie. La recitazione è un altro punto elevato della serie. Sia Bettany che la Olsen se la giocano giocano molto bene. Anche i comprimari non sfigurano e in generale, rispetto al materiale, tutti fanno molto di più del dovuto per mantenere in piedi la baracca. Regia e fotografia sono a livello cinematografico, la scrittura dei dialoghi è altalenante da episodio a episodio, con una depressione caspica per gli ultimi due. 

Un pasticcio insondabile

Peccato che tutto questo minestrone di citazioni televisive, questo percorrere gli ultimi cinquant’anni della televisione americana, serva a poco o a nulla. Le immagini, che all’inizio suggeriscono allo spettatore chissà quale complessità o spessore, si risolvono nel più blando dei finali. Botte da orbi e concetti da tema delle medie.

Tutto viene mescolato in messaggi sul lutto e sulla perdita delle persone che si amano. Si rimugina insistentemente su nullità intellettive che abbiamo sentito e risentito. Una cassetta ormai smagnetizzata, che lagnosa gracchia passaggi che conosciamo a memoria.

Tematica del lutto che viene trattata (con diversi livelli di delicatezza) in una frazione considerevole della filmografia Marvel (Captain America: Civil War, Spider Man: Homecoming, I Guardiani della Galassia I e II, Avengers: Infinity Wars ed Endgame). Si potrebbe anche pensare che la Disney ci voglia addestrare a mo’ di cani di Pavlov. Bisognerà esultare ogni volta che il cartone animato per ragazzi parla di cose apparentemente profonde. Una bavetta colerà a ogni citazione della morte e ringrazieremo i nostri padroni per la preziosa arte che ci è stata donata. Una Cura Ludovico emotiva. La produzione Disney sembra probabilmente pensare di aver trovato un qualche tipo di formula. Un qualche composto alchemico che tenga matematicamente incollata la gente allo schermo, senza rompere troppo le scatole su cosa significhi cosa nel contesto dei personaggi e della storia.

Un problema cinematografico

Il Demiurgo del Cinema, Martin Scorsese.

WandaVision è un film Marvel della durata di sei ore e mezza. Un prolungato rapimento di estetiche pop senza alcuna conclusione di rilevante interesse. Ed è qui che si inserisce un concetto espresso dal Regista e Semidio Martin Scorsese. «Ora abbiamo due campi separati: c’è l’intrattenimento audiovisivo e c’è il cinema», diceva a febbraio di due anni fa. 

E più recentemente, su Harper’s Magazine: «Il termine contenuti si sentiva esclusivamente durante discussioni riguardanti il cinema di alto livello, in contrapposizione […] alla forma. Poi, gradualmente, è stato utilizzato dalle persone che si sono appropriate delle aziende di produzione cinematografiche, molte di queste persone non sapevano nulla della storia della forma d’arte […]. I contenuti divennero un termine generico per definire il mondo dell’immagine».

Questo è il fondamentalmente il problema, ma non solo di questa serie, di tutto l’apparato Disney.  Essere contenuti e nulla più. Essere contenuti come filosofia di produzione artistica.

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Paolo Cannazza

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