Quello tra Partito Democratico e questione di genere è un rapporto da sempre conflittuale, che non nasce certo dalla querelle sui capigruppo PD in parlamento. Nonostante si professi un partito progressista e riformista, dalla nascita (2007) a oggi la sua segreteria è sempre stata appannaggio di uomini: Veltroni prima, Bersani poi, passando per Renzi, Epifani e Zingaretti, arrivando a Enrico Letta (nel mezzo, le reggenze di Franceschini, Orfini e Martina, tutti maschi).
Nessuna donna è mai riuscita (o ha mai voluto?) prendere la poltrona che conta del Nazareno. Ci provò Rosy Bindi, nel lontano 2007, ma solo una sparuta minoranza dei votanti le diede fiducia (curiosamente, nell’elezione che consacrò il mandato di Veltroni, in terza posizione si attestò Enrico Letta). Da quel momento in poi, la segreteria del PD è rimasta una questione maschile. Non solo i ruoli di partito: anche quelli di rappresentanza sono in mano agli uomini. Gli undici incarichi di vertice all’interno delle istituzioni italiane ed europee (ministri, capigruppo, presidenti di regione), fino al termine della segreteria di Nicola Zingaretti, erano integralmente occupati da portatori dei cromosomi XY.
Oggi, con l’arrivo di Letta Jr, qualcosa sta cambiando. Neanche il tempo di insediarsi, e il neosegretario dei democratici ha stravolto il direttivo del partito, inserendo 8 uomini e 8 donne, in nome di una parità di genere tanto voluta in teoria quanto di rado applicata nella pratica. Subito dopo, la richiesta ai suoi parlamentari di dare un messaggio: bisogna sostituire i capigruppo con delle capegruppo (?). Fuori Graziano Delrio dalla Camera e Andrea Marcucci dal Senato, dentro due donne.
Se il primo ha accettato di buon grado il suggerimento dall’alto (ma la carica è ancora vacante), la stessa cosa non si può dire per il secondo. In varie interviste, il senatore si era detto disposto a discuterne, ma non a lasciare a una donna il suo posto solo perché imposto dall’alto. Poi, schiacciato dal peso delle pressioni interne, ha capitolato, cedendo il passo a Simona Malpezzi.
Il punto sollevato dal senatore di “Base Riformista” (la corrente PD vicina a Matteo Renzi, cui appartiene anche Malpezzi), in realtà, è condivisibile. In un’intervista del 25 marzo, riportata da Il Post, Marcucci dichiara: «La questione di genere non si risolve dicendo che il partito rimane in mano agli uomini, il governo ha tutti ministri maschi e quindi alle donne si danno i gruppi parlamentari. Non è un approccio corretto». Facendo due conti, alle ladies del partito vanno sì due di quelle undici cariche di spicco, ma le meno pesanti. Non che Letta avesse molte altre opzioni, invero, ma la dura realtà rimane.
La segreteria è in mano a un uomo, i ministeri anche, le regioni pure. All’altra metà del cielo (democratico), ancora una volta, le briciole. Già alla nascita del governo Draghi era scoppiata la polemica per la scelta del PD di nominare solo maschi ai dicasteri: alle donne, dopo vibranti proteste, i ruoli subalterni (i viceministri, appunto), in una maldestra operazione di compensazione. Guardando gli altri partiti, poco più che un contentino: Forza Italia, presieduta da quel gentleman femminista di Berlusconi, ha due ministri donna (Gelmini e Carfagna) su tre.
Sulla carta, progressisti. Nei fatti, patriarcali. E dire che proprio il Partito Democratico è il principale promotore di quelle leggi che oggi provano a favorire l’inserimento delle donne in politica attraverso lo strumento delle quote di genere, tanto discusse e “illiberali” quanto necessarie in un mondo che, nei fatti, penalizza le donne a scapito degli uomini. E dire che è stato proprio a guida PD l’unico governo della storia repubblicana che ha visto maschi e femmine allo stesso livello (otto poltrone a testa). A presiederlo, il tanto vituperato Matteo Renzi.
Era il 2014, e sembrava che la parità di genere in politica potesse smettere di essere una chimera. Invece, da lì, in casa PD si è giocato al ribasso, relegando le donne a ruoli di “brillante seconda” o a posizioni di mera rappresentanza (come la presidenza del partito, in mano alla silente sindaca di Marzabotto (BO), Valentina Cuppi), poco più che pinkwashing insomma. Tocca dar ragione a Libero (non esattamente un quotidiano femminista) quando descrive, non senza ironia, la frustrazione delle Dem: «Compagne sì, ma un passo indietro».
Articolo comparso originariamente sui blog di Zeta.