Roma, marzo 2020. Due e mezzo di notte. Carlo Verdone, in clausura anti-Covid, aggredito dall’ennesima notte insonne, riapre l’album dei ricordi. Toglie la ceralacca a una scatola di vecchie polaroid che rigurgitano frammenti d’intimità dispersi nella sala di proiezione del tempo. Ne esce fuori un’intimissima Carezza della memoria (Bompiani, 17 euro, pp. 222) che scorre come un nastro ininterrotto di istantanee credute sommerse dalle sabbie mobili del passato. Anche senza una trama lineare. Anche senza una sceneggiatura. Ma riempita di schegge di vissuto. Frammenti d’intimità. Avventure tragicomiche. Passioni clandestine. Aneddoti esilaranti. Paesaggi interiori. Occhi amati e perduti. Tutte tarsie apparentemente scollegate tra loro, ma che magicamente tornano al loro posto nel mosaico interiore dell’ultimo caratterista del cinema italiano.
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Una collezione di memorie senza il filtro del pudore, né velleità autocelebrative, senza neanche una rotta narrativa lineare da seguire, ma tenuta insieme dal collante della sincerità disarmata. E imbevuta di tanta letteratura (Čechov, Seneca, Maupassant, Moravia su tutti). Tanta fotografia. Tanta (splendida) musica. Tanto teatro. Pochissimo cinema (un tributo commosso a Fellini e Flaiano, primi aedi della cafonaggine da litorale romano, e poco più). E, soprattutto, tanta famiglia. Dal papà Mario, qui continuamente presente nelle vesti di padre premuroso, pessimo guidatore e finissimo meditatore, che cerca vanamente il suo di padre, Oreste, ammazzato durante la Prima Guerra Mondiale sui monti friulani. Passando per la madre Rossana, prima tifosa del Carlo Verdone che sarà, e i fratelli Luca, compagno dei teatri da retrobottega, e Silvia. Per arrivare soprattutto ai figli (cui il libro è dedicato): Giulia, bambina segretaria prodigio; e Paolo, degno confidente, e compagno di memorabili pellegrinaggi rock ‘n roll ai concerti degli Who.
Un Verdone nostalgico e intimista, dunque, che spegne la cinepresa, scappa da Cinecittà, per potersi accoccolare nella placenta tiepida dei ricordi. La carezza della memoria non è affatto un cine-libro, né una novelization dei propri film. Ma come e più del primo diario (La casa sopra i portici, Bompiani, 2012, pp. 221), un confessionale aperto, percorso da una vena intimista e crepuscolare, che si snoda anarchicamente tra viaggi tragicomici in treno, memorie di un primo amore messalino, cafonissime rassegne poetiche a Ostia finite a badilate, o elegie di un amico morto d’isolamento. Ma soprattutto confessioni dei primissimi, sofferti passi a teatro di un’artista costantemente angustiato e insicuro. Verso le sue creazioni, verso il pubblico, verso i suoi stessi figli. Per questo ora ci alza (ancora) il sipario della nostalgia senza opporre difesa, e ci lascia intrufolare nel privato, nel dietro le quinte, nella solitudine dell’artista di successo. Alla scoperta delle montagne russe della sua interiorità, di un uomo così teneramente atrabiliare, imbarazzato, insicuro, dietro il cineasta.
Ma c’è di più. Affacciandosi dalla casa sopra i portici Verdone spalanca le persiane dei ricordi che si affacciano su quella Roma anni Settanta carnascialesca e (di)sgraziata che si spende tra vicoli, crocicchi, rioni, cantine, bische, lupanari e lambrette truccate. Perché qui ritrova «l’immensa creatività della coatteria» di quella romanità caciarona e teatrante, triviale e megalomane, fallocentrica e sguaiata, l’humus antropologico perfetto su cui far fiorire tutta una carriera: «Un gran teatro all’aperto dal quale inconsciamente assorbivo quello che un giorno avrei rappresentato a modo mio».
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Ma sarebbe vano sporgersi dalla balconata di questo carrozzone di caratteri umani per arrivare a curiosare dentro la macchina dei sogni del cinema. O magari a spettegolare sul dietro le quinte del set. Sui suoi divi. Sulle sue matrone. Sulle loro inconfessabili debolezze. Perfino quando lo seguiamo al capezzale dell’amante segreta di uno dei santoni del nostro cinema, saggiamente Verdone non scavalca mai la soglia del riserbo. Ci ferma sempre un attimo prima, stracciandoci la licenza di chiacchiericcio. Maschere abbassate e riflettori spenti, dunque, su quel mondo patinato in cui l’autenticità è risucchiata dal vortice di incassi milionari, copertine e vanità. Ne scorgiamo appena il riflesso e il peso insopportabile negli incontri di un ragazzo schivo diventato suo malgrado (l’ultima) icona della romanità, assaltata continuamente in strada da una pletora di adoranti inopportuni. Da qui la fuga nel cantuccio intrauterino delle memorie, nel recinto inaccessibile del privato. Perché il ricordo «nessuno te lo può rubare, non può essere inquinato o manipolato. È il tuo film più vero, più autentico». E noi gli crediamo.
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