Immaginate di aver vinto una vacanza su un’isola del Pacifico, dopodiché vi svegliate sotto il sole circondati solamente da detriti. E di trovarvi proprio al centro di quest’isola, non sapendo con certezza se essa sia grande come la Spagna oppure come gli Stati Uniti, cioè una stima – incerta in base ai criteri utilizzati per identificare i livelli di inquinamento dell’acqua – che va dai 700.000 ai 10 milioni di chilometri quadrati (dallo 0,41 al 5,60% dell’area totale dell’Oceano Pacifico). Vi trovereste nel Pacific Trash Vortex, anche noto come grande chiazza di immondizia del Pacifico, la più grande delle sette isole di spazzatura scoperte (fino ad ora) nei mari e negli oceani del mondo.
L’enorme ammasso di rifiuti si trova approssimativamente fra il 135º e il 155º meridiano Ovest e fra il 35º e il 42º parallelo Nord, seguendo la corrente oceanica del North Pacific Subtropical Gyre, e raccoglie principalmente rifiuti provenienti dal Nord e Sud America, per un totale stimato di 3 milioni di tonnellate di sola plastica presenti sul “territorio” dell’isola.
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L’ammasso itinerante di rifiuti fu scoperto nel 1997 dal ricercatore Charles Moore, che ne fece una battaglia per l’esistenza tramite la sua organizzazione ambientale Algalita Marine Research Foundation, immettendo, negli anni successivi, il tema al centro della politica internazionale. Secondo Moore gli Stati sovrani tendevano a deresponsabilizzarsi e defilarsi nelle azioni tra intraprendere per frenare l’accrescimento dell’isola di detriti perché questa era «troppo lontana dalla costa di qualsiasi nazione», mentre «pulire l’Oceano dal Garbage Patch [altro nome dell’isola, N.d.R.] potrebbe causare la bancarotta di praticamente qualsiasi Stato mondiale».
Il problema dell’inquinamento della plastica è spesso sottovaluto, specie se rapportato a problemi ambientali di più ampio respiro come il riscaldamento globale, ma è particolarmente rilevante nel contesto di mari e oceani; basti pensare che secondo i vari studi un numero tra i 5 e i 10 milioni di tonnellate di plastica finiscono in un fiume, mare o oceano ogni anno, mentre un allarmante rapporto della Ellen MacArthur Foundation predice che a questi ritmi di produzione e smaltimento nel 2050 ci sarà più plastica che pesci nei mari del mondo.
Basti pensare che le altri grandi isole di immondizia – la South Pacific Garbage Patch, tra le coste di Cile e Perù, la North Atlantic Garbage Patch, la South Atlantic Garbage Patch tra Africa occidentale e Sud America – hanno tutte dimensioni stimate di svariate volte l’estensione territoriale dell’Italia. E anche in mari geograficamente più “protetti” dalle correnti come il Mediterraneo si stima – stando al WWF – che l’equivalente di 33.000 bottigliette di plastica venga riversato in mare ogni minuto, tanto che si parla della possibile formazione di una Garbage Patch anche nel Mare Nostrum.
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Il problema dello smaltimento della plastica e altri materiali difficilmente degradabili è acuito ancora più dalla pandemia da Covid-19 e la conseguente produzione di miliardi di mascherine monouso, come testimonia una delle foto finaliste al concorso fotogiornalistico World Press Photo 2021.
Tornando alla Great Pacific Garbage Patch, si suppone che l’accumulo di rifiuti sia iniziato a partire dagli anni Ottanta per effetto dell’inquinamento dell’uomo e rafforzato dall’enorme mole di detriti conseguente ai frequenti terremoti e maremoti nel Pacifico, specialmente quello di Fukushima nel 2011. Secondo l’autorevole rivista scientifica Nature, l’isola è in costante accrescimento.
Il calcolo della precisa estensione territoriale dell’isola è impossibile, dato che essa non è visibile nemmeno per via satellitare; ciò è dovuto alla compresenza dei grandi rifiuti (come bottigliette o reti da pesca) e di microplastiche che si concentrano nell’acqua anche a livelli di profondità di qualche decina di metri e dunque di difficile identificazione. Sono più le seconde che causano grossi problemi agli organismi che abitano il Pacifico, non dimenticando comunque che anche i rifiuti più grandi – se non rimossi nei prossimi anni – andranno a decomporsi in parti più piccole, mentre al contempo sono di ostacolo a molti pesci e uccelli che vi rimangono intrappolati.
Come noto, a differenza dei rifiuti organici la plastica non si biodegrada, bensì va incontro a un processo di fotodegradazione che la disintegra nei polimeri più piccoli che la compongono. Il problema maggiore per l’habitat oceanico è che i polimeri della plastica hanno un comportamento idrostatico simile a quello dei plancton, entrando dunque a far parte della catena alimentare degli organismi marini che abitano il Pacific Trash Vortex: in alcuni campioni di acqua marina i rapporti tra plastica e zooplancton erano di sei a uno.
Anche se, come è naturale che sia trattandosi di un processo recentissimo, mancano studi approfonditi sugli effetti a lungo termine sull’ecosistema degli oceani delle grandi Garbage Patch mondiali, la direzione di questi effetti è tragicamente intuitiva.
Un gruppo di ricercatori della Scripps Institution of Oceanography dell’Università di California, analizzando il pescato del Nord del Pacifico, ha trovato che ben il 9% aveva dei pezzi di plastica nello stomaco; elaborando i risultati si è stimato che tra le 12.000 e le 24.000 tonnellate di plastica ogni anno vengono ingerite dai soli pesci.
Nonostante la fatalistiche (ma non per questo meno realistiche) previsioni di Moore, qualcosa nell’ultimo decennio si sta muovendo per frenare l’avanzata della plastica negli oceani.
Nel 2013 durante il discorso di insediamento di Irina Bokova all’UNESCO, l’artista italiana Maria Cristina Finucci ha presentato Lo stato di Garbage Patch, un’opera artistica ambientale che ha portato consapevolezza sul tema dello smaltimento della plastica negli oceani.
Nello stesso anno il diciottenne Boyan Slat, studente olandese di ingegneria, ha fondato The Ocean Cleanup, la cui missione è ripulire “passivamente” la Garbage Patch mediante un sistema meccanico alimentato a luce solare, l’energia delle correnti marine e il riciclo a terra dei materiali raccolti. Nonostante qualche problema (un difetto causò la fuoriuscita nell’oceano della plastica raccolta) poi risolto, il progetto è partito dal 2018 e dovrebbe essere implementato proprio in questi mesi.
Ancora più importante il contributo di Kaisei, progetto partito nel 2009 dall’Ocean Voyages Institute, che prevede la raccolta della plastica tramite una barca, il Kwai, e radiofari galleggianti con GPS e droni che monitornano l’area per migliorare l’efficacia della raccolta. Salpata dalle Hawaii per il suo primo viaggio nello scorso giugno, è riuscita a raccogliere 103 tonnellate di plastica disperse. Una goccia in mezzo all’oceano. Ma forse non è ancora troppo tardi.
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