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Test nucleari in Polinesia: perché la Francia è sotto accusa

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Giacomo Stiffan
3 luglio 1970, atollo di Mururoa. Esplosione della bomba H “Licorne”, 914 chilotoni.

C’è grande imbarazzo a Parigi dopo la pubblicazione di un’inchiesta realizzata dal sito di giornalismo investigativo Disclose e dallo studio di ricerca Interprt in collaborazione con l’Università di Princeton. L’oggetto dell’analisi, pubblicata lo scorso 9 marzo, è il reale impatto sulla popolazione polinesiana dei numerosi test nucleari francesi realizzati tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta tra gli atolli di Mururoa e Fangataufa. Secondo gli autori il governo francese avrebbe intenzionalmente sottostimato l’esposizione della popolazione alle radiazioni e nascosto la verità per oltre cinquant’anni.

Il programma nucleare francese

Nell’immaginario collettivo occidentale la Polinesia è quanto di più vicino al paradiso terrestre ci sia: spiagge bianche dalla sabbia talmente fine da sembrare borotalco, un mare così cristallino che le canoe paiono volare a mezz’aria e una natura incontaminata, intrisa dell’inebriante profumo dei fiori di frangipane.
La dimensione a cui immediatamente pensiamo è quella di un piccolo e appartato atollo. In realtà la Polinesia è un insieme enorme di arcipelaghi sparpagliati nel Pacifico a migliaia di chilometri uno dall’altro: un triangolo con un vertice nelle Hawaii, uno in Nuova Zelanda e uno nell’Isola di Pasqua. Più o meno al centro di questo triangolo si trova Tahiti e l’insieme di isole che compongono la Polinesia francese, territorio d’oltremare formalmente parte della repubblica di Francia.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale e con l’inizio della guerra fredda il governo francese guidato dal generale De Gaulle stabilì che il deterrente nucleare era una condizione imprescindibile per garantire la sicurezza della nazione. Nel 1957 la Francia cominciò a collaborare con lo Stato di Israele al fine di ottenere un arsenale atomico da dispiegare secondo la dottrina della triade nucleare: aria, con la prima bomba atomica montata su un bombardiere francese, nel 1964; terra, con i primi missili balistici a medio raggio installati nel 1971; mare, con i primi sottomarini francesi armati di missili nucleari, sempre nel 1971.

Leggi anche: Corea del Nord: la crisi nucleare tra provocazioni e deterrenza.

Charles De Gaulle a Mururoa, 1966. Foto: Wikimedia Commons.

I test nucleari francesi in Polinesia

A lato dello sviluppo dell’arsenale atomico la Francia mise in atto un intenso programma di test nucleari. La necessità di disporre di un poligono balistico isolato e lontano da luoghi abitati al fine di minimizzare le ricadute delle radiazioni, portò il governo a scegliere due siti: il deserto del Sahara prima e la Polinesia poi.
Tra il 1960 e il 1996 la Francia eseguì un numero elevatissimo di test: 17 nel Sahara e 193 in Polinesia, per un totale di ben 210 test nucleari.
Se nel Sahara vennero testate bombe relativamente piccole — la maggior parte ampiamente sotto i 100 chilotoni, una sola al di sopra — in Polinesia venne messa in campo l’artiglieria pesante, nel vero senso della parola: dalla Aldebaran, una bomba atomica da poco meno di 200 chilotoni fino all’impressionante Canopus, una bomba H (la prima di costruzione francese) da ben 2,6 megatoni.

24 agosto 1968, atollo di Fangataufa. Test della prima bomba H francese, nome in codice “Canopus”, 2.6 megatoni.

Il governo francese ha sempre sostenuto che si trattasse di test nucleari puliti e il programma sperimentale ha avuto, almeno inizialmente, il sostegno di buona parte della popolazione locale che vedeva nell’iniziativa un potenziale volano per lo sviluppo della zona.

I test nucleari francesi terminarono nel 1996, con l’ultima serie di esplosioni presso l’atollo di Mururoa.

Al giorno d’oggi siamo abituati a ragionare ai danni da radiazioni quali conseguenze di incidenti o errori, basti pensare a Chernobyl o a Fukushima. Facciamo fatica a comprendere cosa possa spingere un governo a immettere intenzionalmente nell’atmosfera, nel mare e nel suolo enormi quantità di materiale radioattivo, soprattutto in un luogo – la Polinesia – che per quanto sia disperso geograficamente non è affatto disabitato.

Leggi anche: Energia nucleare: che succede nel nocciolo del reattore.

L’impatto dei test nucleari sulla popolazione

Nel 2013 i documenti militari relativi ai test nucleari francesi sono stati desecretati a seguito di una battaglia legale tra le vittime dei test e lo Stato francese. Da quelle migliaia di file è partita l’inchiesta di Disclose e Interprt che, coadiuvati dal Science & Global Security Program dell’Università di Princeton, hanno studiato dettagliatamente gli effetti delle esplosioni atomiche sulla popolazione attraverso il ricalcolo delle simulazioni con metodologie più precise, l’aiuto di testimonianze inedite e uno scrupoloso lavoro di analisi della corrispondenza del tempo.
Il quadro che ne esce è agghiacciante.
Il governo francese avrebbe nascosto per più di mezzo secolo il reale impatto di quei test che, secondo l’inchiesta, avrebbero avuto ripercussioni su addirittura centodiecimila persone, vale a dire la popolazione dell’intera Polinesia all’epoca dei fatti.

Leucemia, linfomi, cancro della tiroide, dei polmoni, del seno. I numeri delle malattie indotte dalle radiazioni sono schizzati in alto. Il fenomeno è particolarmente evidente, ad esempio, in un cluster di cancro alla tiroide nelle isole Gambier ed è correlato alle nubi radioattive causate da due bombe, esplose nel giro di pochi giorni: la già citata Aldebaran e la Centaure.
In un documento militare del 1974 si fa riferimento al fatto che nel 1967, per la precisione tre ore prima che avvenissero le due esplosioni, i vertici militari erano venuti a conoscenza di un bollettino meteorologico che li avvisava di un cambio nella direzione del vento, il quale avrebbe certamente trasportato le due nubi radioattive proprio sopra le isole Gambier. I vertici militari decisero di ignorare l’avvertimento ed eseguirono lo stesso i due test.

Mappa della Polinesia francese. Le isole Gambier in basso a destra. Poco più a sinistra, Mururoa. In giallo la distanza tra Mururoa e le isole Gambier, circa 430 chilometri. Foto: Google Earth.

Un disastro evitabile

Il governo e i militari francesi al tempo sottostimarono molte delle conseguenze delle loro azioni. Un esempio su tutti, l’acqua potabile: gli esperti calcolarono l’esposizione alle radiazioni basandosi sulla certezza che le persone bevessero solo acqua di fiume, ignorando il fatto che per moltissimi abitanti delle piccole isole polinesiane la principale fonte d’acqua da bere era quella piovana, pesantemente inquinata dai fallout e i cui isotopi radioattivi finirono nel corpo dei polinesiani, fissati irrimediabilmente nelle ossa e negli organi interni.

Ma le vittime non sono solo tra la popolazione residente. Nel corso del tempo anche lo stesso staff francese ha sofferto pesantissime conseguenze: in un’email del 2017 ricollegabile al ministero della difesa e di cui Disclose è entrato in possesso, si afferma che delle seimila persone tra civili e militari coinvolti nelle operazioni ben un terzo, vale a dire circa duemila persone, hanno già sviluppato o svilupperanno in futuro tumori correlati alle esplosioni atomiche.
La risposta del ministero è stata che si trattava solo di una stima e non di dati ufficiali. Nonostante questo una valutazione è comunque possibile: se quanto riferito in quell’email è la stima sul personale francese, i danni sulla popolazione residente – che ha quindi passato l’intera vita in quei luoghi – difficilmente possono essere minori, anzi.

I risarcimenti

Nel 2010 la Francia ha creato una commissione ad hoc – il CIVEN – con lo scopo di determinare i risarcimenti nei confronti delle vittime.
L’argomento principale usato dal CIVEN per minimizzare le compensazioni è sempre stato che le stime sulla quantità di radiazioni ionizzanti subite dai polinesiani hanno la certificazione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’AIEA.
In realtà questo non sarebbe successo: gli scienziati dell’AIEA non hanno mai potuto accedere ai dati originali, al tempo ancora secretati. Questo rimette in discussione la validità di tutti i risarcimenti che lo Stato francese non ha riconosciuto, o ha riconosciuto parzialmente.

A ciò si aggiunge anche un altro aspetto, per certi versi ancora più grave.
Il CIVEN ha bocciato l’80% delle richieste, in maniera apparentemente casuale. È emblematico il caso di due sorelle conviventi all’epoca dei test e che hanno sviluppato due casi identici di cancro alla mammella: una è stata risarcita, l’altra no. La mancanza di trasparenza la dice lunga: la commissione non è tenuta a dare alcuna spiegazione quando rifiuta una domanda di indennizzo e nessun dato viene reso pubblico.

Una bomba a orologeria per i conti pubblici

Per poter anche solo fare domanda di indennizzo bisogna dimostrare di essere stati esposti a una quantità di radiazioni superiore a un millisievert in occasione dei test nucleari. Il che, secondo le stime governative, sarebbe accaduto a non più di diecimila persone. La ricostruzione di Disclosure invece ha stimato un’incidenza nettamente superiore: ben undici volte la stima governativa, ovvero centodiecimila persone avrebbero ricevuto dosi di radiazioni superiori a un millisievert, e questo in occasione di una singola bomba, la Centaur. 

Dimostrazione contro i test nucleari francesi negli anni Ottanta a Lione. Foto: Wikimedia Commons, Community of the Ark of Lanza del Vasto.

Nel 2020 il CIVET ha semplificato l’iter per la richiesta di indennizzo. L’effetto è stato di facilitarla per il personale francese che prese parte alle operazioni e che ha quindi i mezzi per certificare l’esposizione alle radiazioni, mentre le uniche richieste di polinesiani accolte dal CIVET sono state solo 63. Dal punto di vista meramente economico tutta questa vicenda rischia di trasformarsi in uno tsunami per i conti pubblici francesi: se fosse riconosciuta la ricostruzione fatta da Disclose, la Francia potrebbe trovarsi a dover sborsare enormi somme di denaro per risarcire le vittime.

Una lezione per il futuro

Ironia della sorte, il 6 febbraio scorso una coltre di sabbia sahariana ha ricoperto il sud della Francia, un fenomeno che talvolta accade anche in Italia. In questa occasione però si è trattato di sabbia radioattiva contenente cesio-137, proveniente inequivocabilmente dai siti dei primi esperimenti nucleari francesi nel deserto algerino. Trattandosi di una quantità relativamente piccola e spalmata su una grande superficie non c’è stato alcun rischio per la salute, fortunatamente.

Eppure anche questo è un segnale. Scelte fatte più di mezzo secolo fa producono tutt’ora danni che si sarebbero potuti evitare, e continueranno a farlo per lungo tempo. Quanto avvenuto in Polinesia non è solo una tragedia umana, è una tragedia ambientale vergognosa le cui conseguenze sull’uomo sono solo le più evidenti. Semplicemente, ciò che ci colpisce è la parte con cui è più facile per noi empatizzare, che riesce a farci indignare e su cui si concentrano gli sforzi di chi chiede giustizia mentre l’impatto sull’ambiente – pur non essendo meno grave – pare essere meno sentito dall’opinione pubblica, e questo non solo quando si parla di nucleare.

Intanto la cicatrice lasciata in quell’angolo di mondo un tempo incontaminato rimane, a futura memoria.

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Giacomo Stiffan

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