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L’imperialismo culturale danneggia l’antirazzismo?

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Michel Bellomo

Il 2020 è stato segnato principalmente dal coronavirus, ma anche da una nuova ondata di antirazzismo, con la resurrezione su larga scala del movimento Black Lives Matter (BLM) a seguito dell’uccisione ingiustificata di George Floyd, soffocato da un agente di polizia. Il rinnovato entusiasmo e l’importante aumento del bacino di attivisti sono riusciti a ripulire il movimento dalle sue controversie.

Sebbene il movimento nasca e si sia rinnovato con un focus ben preciso, ovvero protestare contro la brutalità della polizia statunitense nei confronti degli afroamericani, ha presto preso un connotato antirazzista più generale, sottolineando come il doppio standard del sistema di difesa e di giustizia siano solo un dei sintomi di un problema sistemico e che nasconde delle dinamiche tossiche di potere che tengono ancora in considerazione la “razza”. La rinascita del movimento è stata così partecipata da travalicare il confine nazionale, arrivando in tutta Europa e persino in Italia.

In realtà, in Italia il movimento non ha avuto un successo duraturo, non riuscendo a sfruttare l’onda. Tuttavia, ha avuto successo nel portare il dibattito sull’Internet nostrano. La questione della brutalità della polizia non è un tema nuovo in Italia e, insieme ai vari sviluppi giudiziari in particolar modo legati alla morte di Stefano Cucchi, ritorna di tanto in tanto, rivelandosi un tema controverso e fortemente sentito.

La grande differenza con il dibattito statunitense è il disaccoppiamento con le tematiche razziali, data l’assenza di casi di cronaca emblematici a riguardo. Il Black Lives Matter, in Italia, può considerarsi dunque un insuccesso e probabilmente questa è una notizia positiva: si sarebbe trattato di un ennesimo caso in cui l’imperialismo culturale statunitense avrebbe potuto creare danno in Italia, in particolar modo alla causa antirazzista. Di primo acchito questo punto di vista potrà sembrare strano, cinico o reazionario, in fondo quello che conta è l’ideale alla base. In realtà il discorso è più complesso, e per situazioni diverse sono richieste strategie diverse.

Stefano Cucchi e George Floyd in una vignetta di Riccardo Marinucci.

Forme diverse di razzismo

Per comprendere la complessità della questione bisogna partire da un assunto: il razzismo si declina in diverse sfaccettature spesso per ragioni storiche e, sebbene le premesse di fondo siano comuni, può manifestarsi in modi profondamente diversi. L’idea comune di razzismo è probabilmente quella nazista di retaggio lombrosiano, con un concetto di razza che trae le sue origini da nozioni di biologia, spesso mal interpretandole o facendone un minestrone. In questa ottica esiste una gerarchia di razze su base genetica e i vari suprematisti cercano di giustificare il dominio della propria (su tutte le altre) dando una giustificazione nel migliore dei casi paternalista, ma solitamente per ragioni di natura morale. In realtà, oggi il razzismo si è evoluto insieme ai progressi culturali delle varie società, spesso trovando dei metodi per celarsi e riuscire a sopravvivere e tramandarsi senza perdere i suoi connotati d’odio. Basti pensare a come, pur non vaneggiando più sulla razza ariana, l’odio nei confronti degli ebrei rimane un problema ben lontano dalla sua eradicazione.

Su un piano più tecnico, sia in biologia che in antropologia, il concetto di razza è stato completamente ridefinito. Dopo le innumerevoli conferme del fatto che la specie umana non presenta delle differenze tali da poter parlare di vere e proprie “sottospecie” diverse, per razza si intende qualcosa di selezionato artificialmente dall’uomo in animali che altrimenti avrebbero una maggiore coesione genetica all’interno della stessa specie. È il caso principalmente degli animali domestici e da fattoria, quindi non solo le razze di cani e gatti ma anche quelle di animali come vacche o polli, le cui differenze razziali impattano su metodi e scopi del loro allevamento.

In Italia, a parte casi abbastanza rari, sembrerebbe che anche a livello culturale ci sia un assorbimento di questo nuovo significato; negli Stati Uniti invece no. Come racconta Tia Taylor, una youtuber afroamericana  che vive in Italia, mentre qui il colore della pelle è molto secondario, negli Stati Uniti il colore della pelle è un attributo quasi esistenziale che è parte integrante dell’identità dell’individuo e porta con sé tutta una serie stereotipi che si tramutano in conseguenze concrete nella vita di tutti i giorni. Non è un caso che sempre nel video, rivolto ai suoi connazionali, lei continui a utilizzare la parola razza confermando come, se non su basi genetiche, l’idea rimane ancora molto radicata nella cultura americana.

Invece in Italia il problema è più di natura xenofoba, ovvero una generale paura e rifiuto del diverso, basata molto più sulla nazionalità che sull’aspetto esteriore. Questo spiega, tra le altre cose, i problemi relativi a minoranze etniche ben radicate in Italia, come le comunità greche e albanesi sparse per tutto il Sud e soprattutto la questione degli “zingari”, parola che racchiude diverse etnie tra cui gli odiatissimi rom. È chiaro che questa distinzione non è sempre netta, in quanto l’influenza dei movimenti razzisti di fine Ottocento e inizio Novecento si fa sentire fortemente in entrambi gli Stati. Tuttavia è impossibile ignorare come a grandi linee emergano delle differenze sostanziali.

L’antirazzismo americano e i suoi problemi

La storia statunitense è profondamente segnata dal rapporto tra bianchi e neri: la guerra di secessione è una ferita ancora aperta, oltre che il capitolo più celebre (e celebrato) della breve storia della nazione. Questo sottolinea come il conflitto “razziale” sia alla base dell’identità storica del Paese. Nonostante l’abolizione formale della schiavitù, ci volle infatti molto tempo perché le discriminazioni sparissero, anche solo a livello legale. Non sorprenderà dunque che la tradizione antirazzista americana nasce dalle comunità nere, che nel corso di tutto il Novecento sono riuscite far valere le proprie posizioni, portando prima a un’effettiva parità legale, e poi intraprendendo la lotta alle discriminazioni sistemiche.

Bandiera confederata dei secessionisti del Sud, a oggi considerata un simbolo razzista.

La conseguenza di questo approccio è una lotta tra bianchi e neri, dove i suprematisti bianchi hanno iniziato a considerare nero chiunque non fosse super pallido (senza considerare le abbronzature di chi vive negli Stati del Sud della nazione). Per decretare l’appartenenza alla comunità degli afroamericani vale la regola dell’un ottavo. Basta avere anche solo un bisnonno nero perché la propria purezza bianca sia inquinata e si sia considerati automaticamente neri. Il nero, dunque, è ciò che non è bianco nella visione razzista. Allo stesso modo, l’antirazzismo propone il concetto di person of color, ovvero persona non-bianca.

Il discorso si è ben presto complicato, sia con l’eterno dibattito sulla nerezza degli italiani (che trae origini già nell’Ottocento nei discorsi di gerarchie tra razze degli antropologi), sia con altri avvenimenti storici. Da un lato, il delirio successivo all’attacco alle Torri Gemelle ha introdotto una nuova categoria nella scacchiera dell’odio, ovvero quella dei mediorientali. Dall’altro, le ondate migratorie provenienti dal centro e dal Sud del continente ha reso sempre più numerosi e quindi impossibili da ignorare i cosiddetti latinos.

Tutto questo, unito alle politiche di segregazione, ovvero dei piani urbanistici volti alla creazione di una divisione tra quartieri bianchi e quartieri neri (e successivamente quartieri latini), ha creato delle comunità profondamente divise, al punto da far emergere delle vere e proprie sottoculture parallele. Il tutto nonostante una forte identità nazionale con mire espansioniste e un vero e proprio imperialismo culturale su tutto il cosiddetto “primo mondo”.  Occorre sottolineare che quando si parla segregazione non si fa del complottismo ma ci si riferisce a una strategia intenzionale, ampiamente documentata e mai nascosta, i cui effetti sono più che visibili ancora oggi.

Questa segregazione ha fatto sì che ci si arroccasse su un numero molto limitato di etichette, tradizionalmente quattro: bianchi, neri, latinos e asiatici (ma solo quelli con gli occhi a mandorla). Questi ultimi, nonostante degli effettivi svantaggi dovuti dal retaggio razzista, fino a pochi anni fa erano per lo più descritti da stereotipi positivi. Questo perché le prime migrazioni asiatiche dalla Cina risalgono all’Ottocento e hanno portato per lo più lavoratori specializzati come medici che, anche se visti con paternalismo e maltrattati, hanno potuto sedimentarsi con un relativo agio e integrarsi nella società ricca, togliendosi di dosso tutti gli stereotipi negativi dovuti alle situazioni di degrado e povertà.

Purtroppo le cose sembrano star prendendo una piega differente e i recenti casi di cronaca raccontano un crescente odio verso le comunità asiatiche con un cambio di tendenza inaspettatamente rapido.

Cartelli dalle proteste che seguono i recenti casi di cronaca come la strage di Atlanta.

Non serve una laurea in Sociologia per capire che impostare sia il discorso razzista che quello antirazzista su queste sole categorie palesemente arbitrarie crei cortocircuiti e assurdità in entrambe le fazioni. Da un lato, qualsiasi tentativo di tassonomia razzista si ritorce contro sé stessi, per esempio nella questione antisemita. Dall’altro lato, una narrazione antirazzista che conferma divisioni e stereotipi risulta inefficace ed esclude tutta una serie di persone che non rientrano in queste etichette e che non sono ignorabili anche su un piano cinicamente numerico. È il caso degli indiani, soprattutto quelli di seconda generazione, quindi americani sia de facto che de iure che cominciano a rivendicare i loro problemi nella lotta o che riescono a mostrare l’assurdità di alcune politiche dalle buone intenzioni.

Gran parte dell’antirazzismo statunitense sta convergendo nelle cosiddette identity politics. Politiche che si basano sull’assunto che ogni individuo è descrivibile come la somma di alcune identità di gruppo. Il problema di questo approccio è che sebbene cerchi di unire e descrivere i disagi delle varie minoranze, sommandole con un approccio intersezionale, finisce per fare delle assunzioni molto pesanti su intere categorie. Se da un lato è innegabile che un individuo nero e omosessuale sarà discriminato per entrambe le questioni (come se in qualche modo fosse quantificabile aprioristicamente), dall’altro lato al netto delle discriminazioni un individuo nero nato ricco può avere un’esperienza di vita molto più agiata di un uomo bianco nato in un quartiere povero. Il difetto più grave di questa teoria è che sembra costruita per escludere nel proprio modello qualsiasi componente economica, in modo da non dover mettere in discussione il sistema capitalista così come è implementato negli Stati Uniti. Chiunque provi a parlare di classi sociali, o solo vagamente introdurre la questione della discriminazione su base economica, viene bollato come class reductionist o direttamente come marxista usando una specie di argomentum ad hominem, dato il valore altamente dispregiativo di questi epiteti.

Un altro grosso problema del progressismo americano è la sua incapacità, o meglio una mancanza di volontà di mettersi in discussione col mantra secondo cui il progresso è inarrestabile ed è solo una questione di tempo, per cui ogni resistenza è vana. Sicuramente nel lungo periodo sembrerebbe che i “buoni” vincano ma non tutte le obiezioni sono di stampo conservatore/reazionario: alcune dibattono un metodo trattato come un dogma. Questo atteggiamento è evidentemente problematico e ricorda come a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo anche i progressisti fossero fortemente razzisti. La differenza è che se i reazionari proponevano una visione razzista di base genetica, con un tono esistenziale, i progressisti proponevano una teoria pseudo-evolutiva di stampo illuminista detta darwinismo sociale. Questa idea, inizialmente teorizzata dal filosofo Herbert Spencer, sostiene che l’umanità sia nata uguale e che si sia diversificata in razze, che possono essere fatte progredire verso un concetto di superiorità che coincide con quella europea. Rimane una rigida etichettatura delle “razze” che non solo sarà alla base dell’eugenetica nazista ma ricorda sospettamente la rigidità delle identità collettive. Questo conferma come il discorso americano sia ancora bloccato a un paradigma obsoleto da entrambi i sensi, intrappolato nel concetto di razza che in Europa ci siamo lasciati alle spalle.

Razzismo e antirazzismo all’italiana

Criticare la situazione americana risulta relativamente semplice perché noi europei, nonostante siamo ideologicamente inondati da media americani, possiamo dirci fuori dai loro paradigmi culturali. Questo ci permette di mantenere una certa lucidità e oggettività sia nell’analisi che nei giudizi. Parlare del nostro è un po’ più complesso, ma non manca il lavoro di antropologi e sociologi che offre degli spunti di riflessione molto importanti.

Noi italiani, brava gente, sappiamo essere innovativi anche sul fronte dell’odio. Come si è detto, il razzismo è una creatura viscida che sa svicolare e mutare per passare inosservata, ma rimane in ogni caso infestante. Parlare di solo xenofobia può risultare riduttivo: d’altro canto non è facile capire su cosa si basa il comune odio da parte degli italiani. Il colore della pelle è una questione così secondaria che definire chi è nero in Italia non è una domanda dalla risposta univoca.

È necessario fare chiarezza su come si è evoluto il razzismo al giorno d’oggi. Secondo il sociologo e filosofo francese Pierre-André Taguieff sono tre le componenti che definiscono il razzismo senza più il concetto di “razza”: la categorizzazione essenzialista, stigmatizzazione e barbarizzazione.

La prima è il processo di generalizzazione totale di un individuo alla sua categoria, e questo può avvenire su diverse basi. Dato che il concetto di nazionalità, o di etnia, sono concetti non concetti sempre soddisfacenti, si ricorre a un qualunque tipo di categorizzazione, che può essere un generico “gli immigrati”, “i napoletani” o “i cinesi”. In realtà questo tipo di riduzione a essenze è un meccanismo di generalizzazione molto comune, frutto di un processo di esemplificazione che tutti noi facciamo: ha senso effettivamente parlare di razzismo quando questa categorizzazione è accompagnata da ed è frutto di uno squilibrio di potere. Così come possiamo avere stereotipi anche positivi, talvolta umoristici, come la precisione svizzera, bisogna fare attenzione ai pregiudizi negativi: la differenza sarebbe quindi nell’asimmetria di un individuo medio che finisce per sostenere che tutti gli individui di una categoria, in quanto appartenenti a quella categoria, hanno le stesse caratteristiche.

Questo non basta: il secondo elemento è la stigmatizzazione. Lo stereotipo non solo diventa completamente e aprioristicamente descrittivo ma viene utilizzato per alienare (nella sua accezione più ampia, ovvero rendere altro), e per questo escludere, le altre categorie. Questo si basa sull’assunzione che le categorie che originano le etichette siano rigide e immutabili. Se tutti gli extracomunitari sono pigri e inclini al crimine, è giusto fare due pesi e due misure: questo è il ragionamento implicito di molti razzisti contemporanei.

Il terzo elemento è la barbarizzazione, ovvero l’idea è che tutti gli altri non siano correggibili: pertanto il massimo che si può fare è assorbire l’altro, mai mischiarsi, perché l’integrazione comporterebbe una perdita di civiltà per il soggetto in maggioranza.

Meme che ironizza sull’espansione della Lega attraverso la de-alienazione del nemico, in vista di un nuovo nemico ancora più ampio.

Non è difficile notare come questi atteggiamenti siano radicati e diffusi nella popolazione italiana, e non da tempi recenti. Ne sono esempio i comportamenti discriminatori della Lega Nord, riscontrabili già dai suoi esordi con l’odio verso i terroni, successivamente unitisi alla causa dell’odio verso gli stranieri. Non è un caso che la destra sociale populista di oggi venisse inizialmente chiamata dalla stampa “destra salviniana”, poi lepenista e infine trumpiana in base alla maggiore rilevanza internazionale dei leader di turno.

La risposta dell’antirazzismo italiano finora è sempre stata inefficace e pigra. L’atteggiamento dei progressisti italiani è spocchioso, condito con una retorica pregna di un senso di superiorità morale e intellettiva, che finisce per chiudere il dialogo con tutti coloro che potrebbero con poco rendersi conto dei propri atteggiamenti e che invece finiscono per arroccarsi nelle proprie posizioni.

Il problema principale, tuttavia, è che da una ventina d’anni a questa parte la ricetta principale della sinistra italiana, che è l’unica sfera politica a contemplare la causa antirazzista, è semplicemente copiare i colleghi americani. Questo ha favorito la retorica dei professoroni di sinistra distaccati dalla realtà che parte da un fondo di verità ma che vale per la sola classe politica: solo guardando al Paese reale e ai suoi problemi si possono individuare delle soluzioni sensate. La questione antirazzista non fa eccezione.

In realtà la colpa non è da attribuire ai soli politici. Anche l’opinione pubblica ha il demerito di ripetere i vari mantra dell’antirazzismo americano senza pensarci su. Questo però ha una causa precisa e invasiva: l’imperialismo culturale. Noi consumiamo una quantità enorme di produzioni mediatiche americane e finiamo per esserne enormemente influenzati. La propaganda hollywoodiana, che mira a un mantenimento dello status quo, finisce per essere estesa a destinatari diversi da quelli per cui è pensata, per ragioni di mercato e di profitto travalicando l’oceano e finendo per creare degli stereotipi che deformano la percezione della realtà attraverso l’abuso di tropi narrativi. Se ciò non bastasse, bisogna unire la tendenza degli statunitensi a sentirsi un po’ il centro del mondo, con il compito di “salvarlo”. Il salvataggio comprende azioni come l’esportazione della democrazia con le armi e anche l’abuso del soft power negli equilibri geopolitici.

Uno degli effetti più sottovalutati di questo atteggiamento è l’idea secondo cui i paradigmi culturali americani siano gli unici accettabili e le risposte che offrono siano universalmente applicabili. Chiunque vorrà dunque informarsi sulla questione attraverso fonti anglofone dovrà scontrarsi con un atteggiamento di imposizione del paradigma culturale angloamericano e le sue presunzioni. Il risultato è spesso un’accettazione acritica di questo paradigma, per la paura di essere considerati della fazione nemica.

Se a tutto questo si unisce una tendenza all’ipersemplificazione e alla riduzione dei concetti in slogan (che diventano nel tempo mantra) si ottiene un ritratto del disastro che è l’antirazzismo italiano e del perché è così inefficace. La questione è incredibilmente complessa, e lo dimostra il fatto che, nonostante gli sforzi politici e accademici, il problema è ben lontano dall’essere eradicato. Per questo è importante che anche l’attivismo dal basso sia disposto a mettersi in discussione e ad accettare l’idea che si possa fare di meglio. Essere dalla parte della ragione, anche se solo presunta, richiede il dovere di evitare quanto più possibile passi falsi, per non concedere elementi che la retorica populista e xenofoba sa ottimamente sfruttare.

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