Diretto e narrato da Ali Tabrizi, Seaspiracy, nuovo documentario Netflix, fa luce sulle pratiche della pesca intensiva, denuncia le certificazioni di sostenibilità, critica l’Unione Europea e ci pone di fronte alla realtà e a come le nostre abitudini alimentari stanno portando il nostro pianeta a morire, più velocemente di quello che pensiamo.
L’obiettivo del documentario è quello di scioccare chi lo guarda, e ci riesce molto bene. Per farlo, in realtà, basta uno dei primi dati: secondo le previsioni, nell’oceano non ci saranno più pesci entro il 2048. Si tratta di un dato non nuovo agli esperti, che da anni ci invitano a cambiare le nostre abitudini alimentari, ma è sconosciuto ai più. Seaspiracy in soli novanta minuti ci mette davanti a questa – e tante altre – verità scomoda, e non può che lasciare il segno.
Seaspiracy segue le orme di Cowspiracy, uscito nel 2014 e diretto da Kip Andersen e Keegan Kuhn. I due film, che condividono lo stesso team di produzione, sono disponibili su Netflix. Anche Cowspiracy, a suo tempo, aveva dato molto di cui parlare, denunciando l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, ben maggiore di quello che pensiamo. Seaspiracy ci mostra il devastante impatto che la pesca commerciale sta avendo sulla vita marina, fondamentale per la sopravvivenza degli oceani. Lo fa tramite appostamenti sul campo, ricerche e interviste, spesso rifiutate dagli interpellati.
Il viaggio di Ali Tabrizi parte dal Giappone, dove migliaia di delfini vengono uccisi (i pochi che sopravvivono sono venduti ai parchi acquatici) e dove il tonno rosso, di cui oggi rimane meno del tre per cento, viene pescato senza riserva. Ci mostra il lavoro forzato a cui sono sottoposti gli uomini dei pescherecci thailandesi dedicati ai frutti di mare. Racconta del mercato delle pinne di squalo a Hong Kong. Passa per la caccia alle balene e arriva fino all’Europa, denunciando una legislazione che ancora non riesce a tutelare l’ecosistema marino.
La tesi principale del film è che non possa esistere una pesca sostenibile. Questo è uno dei punti più controversi di tutto il docufilm, contestato da molte organizzazioni dell’industria ittica. A sostenere questa tesi, uno dei paradossi più grandi: per alimentare i pesci negli allevamenti servono mangimi a base di farina e olio di pesce. Questi sono, ovviamente, prodotti da altri pesci e creano un continuo sfruttamento delle risorse. E ancora: non ci può essere una pesca sostenibile se nel pescare il tonno si catturano accidentalmente anche delfini, squali e tartarughe marine. Quest’ultimo, l’altro grande tema del film: il pescato accidentale corrisponde a circa il quaranta per cento del pescato totale ed è una delle minacce più gravi per le specie marine.
Un documentario sugli oceani non poteva non toccare anche il tema della plastica. Come spesso succede, infatti, fenomeni diversi sono collegati tra loro. In questo caso, l’isola di plastica che galleggia nell’Oceano Pacifico, che si stima arrivi fino a dieci milioni di chilometri quadrati, è composta per la maggior parte da attrezzature da pesca lasciate in mare, che intrappolano i pesci e che finiscono nello stomaco dei cetacei. Il problema della plastica monouso, sebbene importante, sembra essere secondario. Un ulteriore punto che il regista riesce ad affermare a dimostrazione di quanto l’industria ittica sia invasiva.
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In modo simile al predecessore Cowspiracy, Seaspiracy tocca anche gli interessi milionari che stanno dietro all’industria della pesca. In particolare vengono accusate le organizzazioni di tutela degli oceani e le certificazioni di sostenibilità, spesso finanziate da imprenditori ittici. L’esempio più importante è quello della certificazione Dolphin Safe, che dovrebbe garantire la protezione dei delfini durante la pesca di tonno. In realtà, si scopre, i prodotti con questo marchio non possono garantire la protezione dei delfini, rendendo nullo il marchio stesso.
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Come ogni documentario, anche questo non è esente da critiche e sono molti i magnati dell’industria schierati contro Seaspiracy. Tuttavia, sarebbe stato sicuramente più interessante se queste accuse fossero state affrontate di persona, mentre gli interpellati hanno rifiutato le numerose richieste di intervista. Altre critiche hanno sottolineato gli sforzi di alcuni Stati e associazioni che si stanno impegnando per un’industria ittica più sostenibile. Infine, altri hanno criticato alcuni i dati scientifici e la mancanza di un quadro completo: è vero che in Giappone si pratica ancora la caccia alle balene, ma perché non hanno parlato anche della Norvegia?
Nonostante le critiche, Seaspiracy rimane un documentario Netflix da vedere. Anche se nettamente schierato, visto il finale che – spoiler – sostiene che l’unico modo per tutelare gli oceani sia una dieta vegetale, questo docufilm può e deve essere l’occasione di apertura al dibattito. Anche se non sempre corretto, riesce a darci comunque la wake-up call necessaria. Come molti altri documentari Netflix (The Social Dilemma, tra i più recenti) riesce a rompere la barriera e instaurare una riflessione su temi di cui sappiamo poco. Un cambiamento deve arrivare, più consapevolezza è necessaria e Seaspiracy può essere un punto di partenza.
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Sempre a tema oceano e candidato agli Oscar 2021, su Netflix è da poco disponibile anche Il mio amico in fondo al mare. Una vera e propria immersione dove l’insolita amicizia tra il documentarista, Craig Foster, e un polpo ci porta alla scoperta dell’oceano come non lo avevamo mai visto. La visione di entrambi i documentari apre le porte a un mondo tanto curioso quanto inesplorato, che è nostro compito proteggere.
Nella sua tragica narrazione, comunque, Seaspiracy lancia anche un messaggio di speranza: i nostri oceani possono ancora rinascere, se lasciamo loro gli spazi dovuti. Seaspiracy è schierato e senza mezze misure, ma è necessario agire ora. Anzi, era necessario agire ieri.
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