Poco più di un mese fa, mentre l’occhio dei media occidentali era puntato quasi esclusivamente sul monitoraggio della situazione pandemica, dall’altra parte del mondo, precisamente nella penisola indocinese, si è verificato uno dei più violenti e brutali golpe che la storia recente ricordi. In Myanmar, ufficialmente Repubblica indipendente dal 1948, l’esercito ha preso il potere a seguito di un colpo di stato e ha arrestato tutti i principali esponenti del partito di maggioranza, inclusa Aung San Suu Kyi, figura molto popolare nonché capo dell’esecutivo.
Dopo la rappresaglia e gli arresti del primo febbraio scorso, in Birmania non si sono ancora fermate le violenze: per limitare la fuga di notizie e impedire la diffusione delle immagini scioccanti delle proteste e delle repressioni, nella capitale Naypyidaw e nell’altro grande centro urbano di Yangon sono state interrotte le linee telefoniche e sono state sospese le trasmissioni della tv di Stato. La conta dei morti ha superato negli ultimi giorni quota cinquecento, ma viste le tensioni e gli scontri dell’ultimo periodo probabilmente questo terrificante dato è destinato a crescere ulteriormente.
La feroce operazione militare, capeggiata dal generale Min Aung Hlain, ha ragioni politiche profonde: il Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione (USDP), sostenuto dall’esercito, aveva infatti perso nettamente le elezioni del novembre scorso a favore dell’altro grande partito, la Lega nazionale per la democrazia (NLD), guidato da Aung San Suu Kyi. Il 27 gennaio, durante una videoconferenza con l’Accademia militare, il generale Min Aung Hlain aveva rilasciato alcune dichiarazioni scottanti – come la possibilità di abolire la Costituzione – che avevano insospettito molti all’interno del nuovo Parlamento, che si sarebbe dovuto riunire per la prima volta quattro giorni dopo.
Secondo Kyi Toe – portavoce del partito NLD – tutti i parlamentari arrestati hanno già fatto ritorno alle proprie abitazioni e sono attualmente al sicuro, ma di Aung San Suu Kyi, leader popolare e premio Nobel per la pace nel 1991, non si hanno ancora notizie. Qualcuno suppone che sia stata portata in un luogo diverso rispetto a quello in cui sono stati imprigionati gli altri politici, e risulta pertanto chiaro come la segretezza della località sia un ulteriore ed evidente simbolo del consenso democratico di cui, ora più che mai, gode.
Dall’aspetto austero e dal basso profilo, il gerarca ideatore del golpe ha alle spalle più di quarant’anni di carriera militare e si è reso protagonista, nel percorso che lo ha portato all’ascesa, di atti alquanto crudeli e tirannici. Descritto dai suoi commilitoni come una persona tranquilla e mediamente intelligente, nel 1977 è entrato nell’esercito come ufficiale di fanteria e si è subito occupato di reprimere le ribellioni delle minoranze etniche in Myanmar. In particolare, l’impietosa tecnica usata per quietare le proteste – su tutte quella dei Rohingya, minoranza di religione islamica – prende il nome di “strategia dei quattro tagli” e consiste nell’isolare i ribelli dal resto dei civili e interrompere i rifornimenti di cibo, soldi e informazioni di intelligence, così da ridurre al minimo il coinvolgimento popolare e sedare in tutto silenzio ogni sorta di protesta.
Al momento Min Aung Hlain è considerato l’uomo più potente dell’intero Paese, non solo per la carica che attualmente ricopre, ma anche per i rapporti che è riuscito a stringere nel corso degli anni, sia in Birmania che all’estero, e soprattutto per la legittimazione di cui gode all’interno dell’esercito.
Per manifestare il proprio dissenso, buona parte della popolazione birmana sta invadendo le strade e occupando le piazze, mentre coloro i quali svolgono mansioni pubbliche stanno scioperando frequentemente. Più di settanta medici della capitale, ad esempio, hanno deciso di non presentarsi più in ospedale, creando caos e disordine in un sistema sanitario già martoriato dall’emergenza Covid-19.
Nonostante la crisi pandemica, infatti, le proteste non si sono affatto affievolite. Anzi, per le vie del Paese, sia pur pacificamente, i raduni di massa e le contestazioni sono all’ordine del giorno, e di conseguenza, i rari ma brutali scontri armati stanno mietendo molte vittime innocenti.
I possibili scenari futuri per quanto riguarda la situazione politico-sociale in Myanmar sono molteplici. Certo è che l’instabilità e la tensione saranno protagoniste anche nei prossimi mesi. Min Aung Hlain, che nel frattempo è diventato premier, ha liquidato i ventiquattro ministri democraticamente eletti e ha nominato in loro vece undici ufficiali dell’esercito.
Il piano politico dell’ex generale è, a detta della propaganda filo-militare, quello di instaurare «un sistema democratico multipartitico basato sulla disciplina» garantendo nuove elezioni e trasferendo, una volta noto il loro esito, il potere al partito vincitore. Ovviamente i dubbi sull’effettiva volontà di democratizzare il Paese da parte del nuovo regime sono molti e verosimilmente fondati: l’epilogo più tristemente probabile, infatti, è che l’esercito sfrutti la sovranità conquistata per pilotare le votazioni a favore dell’USDP, tenendo così sotto scacco l’intero panorama politico e mantenendo un’influenza e un potere decisionale pressoché illimitati.
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