Bufale e disinformazione: l’annosa sfida del debunking

Nel 2014 sul Washington Post veniva pubblicata la rubrica intitolata What was fake on the Internet this week.


L’obiettivo era quello di dare una risposta alla epidemia di bufale e di leggende metropolitane che si stavano rapidamente diffondendo sul web.


Appena un anno più tardi, il 18 dicembre 2015, Caitlin Dewey ne annunciava la chiusura.
La guerra alla disinformazione assomiglia a una lotta contro i mulini a vento perché, come afferma Walter Quattrociocchi – esperto di scienze sociali computazionali, attualmente insegna presso la Sapienza di Roma – molte persone continueranno a credere a una bufala anche se poste di fronte alla dimostrazione della sua falsità. «La sfiducia nelle istituzioni è così alta, ora, e i pregiudizi cognitivi così forti, sempre, che le persone che seguono le bufale spesso sono interessate soltanto nel consumare l’informazione che si conforma alla loro visione» spiegava Quattrociocchi nel 2015 a Caitlin Dewey del Washington Post.

Quali, allora, le soluzioni al dilagare della disinformazione? Se smentire una bufala non è più sufficiente a convincere le persone che quanto da loro appreso è pura fantasia, quali devono essere gli obiettivi del debunking?

Foto: Max Pixel.

Un Far West digitale

Oggi viviamo in un’epoca in cui gli accessi all’informazione sono molteplici e immediati. Grazie soprattutto al libero accesso a Internet, l’informazione si presenta sotto una veste completamente nuova rispetto al passato. Innanzitutto, il web consente a chiunque di trasmettere e veicolare dei messaggi tramite blog e profili social: «Il world wide web è la patria della disintermediazione» e «coesiste con il processo democratico e lo influenza profondamente», si legge in Misinformation, un libro di Antonella Vicini e Walter Quattrociocchi.


Se Internet è la patria della disintermediazione, significa che i contenuti in esso presenti non sono obbligatoriamente soggetti ad alcun tipo di revisione. Se tralasciamo la stampa digitale, che deve onorare un suo codice deontologico, tutte le altre fonti di informazione potrebbero – intenzionalmente o meno – diffondere notizie parziali, non verificate, inesatte o completamente infondate.


È evidente che, se Internet diviene progressivamente il principale canale mediatico attraverso cui informarsi, il problema della disinformazione sul web rappresenta un rischio per gli ordinamenti democratici.


Negli ultimi anni, tra l’altro, abbiamo assistito a concreti tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica per mano di schiere di troll organizzate in blog e pagine social.

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Il trionfo della disintermediazione

A spingere sempre più persone a informarsi attraverso canali alternativi è perlopiù la grande sfiducia nei confronti delle istituzioni. La sensazione di essere rappresentati da una classe dirigente disonesta e corrotta ci porta a dubitare di ciò che è o appare istituzionalizzato. Il bersaglio di questo malcontento può travolgere la scuola (dove si studia la storia dei vincitori), la medicina (i medici obbediscono a Big Pharma), la scienza e i giornali (sempre più considerati servi di questo o quel partito). Questo fa sì che ci sentiamo sempre più fragili, perché l’essere umano ha bisogno di trovare delle certezze sulle quali edificare le proprie credenze. È così che iniziamo ad avere fame di risposte, da cercare altrove. Un effetto tangibile di questa sfiducia generalizzata si apprezza, in Italia e non solo, volgendo lo sguardo agli ultimi risultati elettorali. A riscuotere una fetta importante di consensi sono quelle forze politiche che si presentano come antagoniste del sistema. Poco importa se poi, a conti fatti, alcune di queste hanno calpestato per anni il palcoscenico della politica, o se di fatto rappresentano posizioni conservatrici o reazionarie: quel che conta è che vengano percepite come qualcosa di nuovo.

Le insidie dei social network

Nel 1979 così scriveva Eugene F. Shaw: «In conseguenza dell’azione dei giornali, della televisione e di altri mezzi d’informazione, il pubblico è consapevole o ignora, dà attenzione oppure trascura, enfatizza o neglige». I mezzi d’informazione hanno infatti il potere di dettare l’agenda setting, ovvero di selezionare le notizie da raccontare e quelle da lasciare nell’oblio.

Da un punto di vista psicologico, siamo portati a percepire come importanti quelle notizie che vengono ripetute di più. La nostra mente, inoltre, tende a percepire come maggiormente attendibile una notizia che ha ricevuto molto successo e poche critiche. Se pensiamo al modo in cui è stato concepito Facebook, il social network per eccellenza, ci possiamo rendere conto del fatto che la condivisione dei contenuti è pensata per attirare i consensi, dando poco spazio alle critiche e al dissenso. Ora le cose sono cambiate, grazie per esempio alle reaction che ci permettono di esprimere una gamma più vasta di stati d’animo; all’inizio, tuttavia, era possibile lasciare solo il like come feedback. La critica aveva spazio solo nella sezione dedicata ai commenti: uno spazio che gode di minor visibilità, rispetto al contatore dei like.

Il lancio dell’esca in un ambiente propizio

Per fare in modo che il castello di credenze e pregiudizi non crolli, le persone tendono a organizzare le proprie vite sociali in gruppi il più omogenei possibile. È ciò che accade anche nei social network, dove si creano pagine fan e gruppi specifici composti da individui che condividono una propria visione del mondo.


Questi gruppi, che possono diventare vere e proprie camere dell’eco, dove ognuno parla tra sé e sé (dato che il dibattito è assente o fortemente scoraggiato), rappresentano i luoghi ideali per la diffusione e la proliferazione di bufale. E questo è un punto cruciale per capire come mai le bufale, anche le più assurde, riescono a diffondersi: l’esca viene lanciata in un ambiente propizio (ossia poco competente, come un gruppo con tanti membri che non hanno una conoscenza approfondita dell’argomento che si vuole trattare), dopodiché sopraggiungeranno le prime interazioni.


Generalmente, il dissenso viene taciuto, mentre prevale la volontà di esprimere il proprio apprezzamento. Quando la notizia falsa riguarda un tema di attualità o di politica, l’apprezzamento al post è in sostanza una feroce e aperta critica contro il personaggio o il partito politico preso di mira in quel momento. Chi assiste a questo scenario può essere coinvolto in quello che viene definito effetto San Matteo: semplificando al massimo, potrebbe subire l’influenza della maggioranza e quindi prendere per buono il messaggio veicolato dal messaggio-bufala, perché gli apprezzamenti superano le critiche.

Foto: Piqsels.com

Nel 1963, il sociologo Joseph Klapper, in riferimento all’informazione veicolata dai media tradizionali, scriveva: «Se la gente tende a esporsi soprattutto alle comunicazioni di massa secondo i propri atteggiamenti e ai propri interessi e a evitare altri contenuti, e se per di più tende a dimenticare questi altri contenuti appena se li trova davanti agli occhi e se, infine, tende a travisarli anche quando li ricorda, allora è chiaro che la comunicazione di massa molto probabilmente non cambierà il punto di vista. È di gran lunga molto probabile anzi che essa rafforzerà le opinioni preesistenti».

I risultati di uno studio del CSSLab (ITM di Lucca)

Walter Quattrociocchi è stato professore e ricercatore del Laboratorio di Scienze sociali computazionali (CSSLab) presso l’ITM di Lucca. È coautore di Misinformation, un libro che spiega i risultati scientifici che il suo gruppo di ricerca ha conseguito studiando i meccanismi di fruizione delle notizie sui social network.


Riassumendo brevemente i passaggi principali evidenziati negli studi, è stato dimostrato che le persone tendono ad acquisire le informazioni che possono confermare i propri pregiudizi di partenza (confirmation bias); si organizzano in ambienti omogenei, dove interagiscono con chi condivide lo stesso sistema di credenze (camere dell’eco) e, infine, rafforzano le proprie posizioni di partenza grazie al supporto ricevuto dai propri simili che popolano questi gruppi (polarizzazione).


Quello appena presentato non è l’identikit del complottista: siamo tutti coinvolti in processi cognitivi simili.


Alla luce di quanto emerso dai loro studi, i ricercatori del CSSLab hanno sottolineato le difficoltà dell’attività di debunking (smascherare, con dati alla mano, le notizie false che circolano sul web).


Anche chi vuole smascherare le bufale in nome della verità e della conoscenza corre il rischio di polarizzazione e radicalizzazione. Quanto più il debunker viene percepito come un servitore del sistema e dei poteri forti, tanto più il suo pubblico principale di riferimento (quello dei complottisti) sarà diffidente e restio a prestare attenzione ai fatti che vengono proposti. Inoltre, i dati che dovrebbero smascherare una notizia falsa non sempre riescono a sortire l’effetto sperato: di fronte a un soggetto radicalizzato e in assenza di una strategia comunicativa idonea, può verificarsi il cosiddetto “ritorno di fiamma” (effetto backfire), ossia un ulteriore rinforzo delle posizioni di partenza.

La parola ai debunker italiani

Dunque, impegnarsi per smascherare le bufale online è inutile? Chiara Severgnini, scrivendo per La Stampa, aveva posto il quesito ai principali debunker italiani: Paolo Attivissimo (Disinformatico), David Puente (Bufale.net) e Michelangelo Coltelli (Butac.it).
Secondo Coltelli, la sua attività è utile perché si rivolge anche a «tante persone che cadono in trappole diverse dal complottismo, come i malati alla disperata ricerca di una cura o chi ingenuamente crede a qualche truffa». Secondo Puente «il debunking è inutile solo per chi è così convinto dell’esistenza dei complotti da arrivare ad accusare chi li contraddice di “far parte del sistema” o di essere “pagato dai poteri forti”. Ma ciò non significa che sia inutile per gli altri». Lo studio del CSSLab, d’altronde, ha evidenziato le difficoltà di smascheramento delle bufale soprattutto in relazione a gruppi altamente polarizzati e radicalizzati. «Esiste una trascurata terra di mezzo, quella delle persone silenziosamente dubbiose, indecise se accettare una tesi di complotto o la sua smentita e riluttanti a esternare questi dubbi sui social network», dichiara Paolo Attivissimo.
Qual è l’approccio giusto da adottare? Un debunker dovrebbe evitare l’aggressività e i toni aspri. «I complottisti in fondo sono vittime di una cattiva informazione o di veri e propri raggiri», spiega Puente. Inoltre, il linguaggio deve essere chiaro ed efficace, perché – ricorda Coltelli – «quasi un italiano su due non è in grado di seguire un breve testo, di capire un contratto, di apprezzare un editoriale». A ribadire l’importanza della propria attività è ancora Coltelli, di Butac.it: «Anche una sola mamma che sceglie di vaccinare i figli grazie ai nostri articoli vale lo sforzo che facciamo ogni giorno».

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