L’esito dell’ultimo referendum costituzionale, che ha ridotto il numero dei parlamentari dagli attuali 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori, ha reso necessario un adeguamento del sistema elettorale, completato a dicembre scorso con la ridefinizione dei collegi di Camera e Senato.
Negli ultimi mesi del 2020, una commissione di esperti (prevalentemente docenti universitari), presieduta dal presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, ha riconfigurato la mappa dei collegi uninominali e plurinominali per le due Camere. Questa commissione ha concluso i lavori il 13 novembre, inviando al governo una relazione contenente la proposta per i nuovi collegi. L’esecutivo l’ha accolta integralmente, l’ha girata alle due camere e il 23 dicembre i nuovi collegi sono diventati ufficiali. I criteri utilizzati per ridisegnarli sono disponibili sul sito dell’ISTAT.
L’approvazione della riforma costituzionale ha inoltre ridotto i parlamentari eletti dagli italiani residenti all’estero. Passeranno da 12 a 8 deputati e da 6 a 4 senatori. È stato anche stabilito un tetto al numero dei senatori a vita nominati dai presidenti della Repubblica: mai più di 5.
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Ma queste nuove disposizioni entreranno in vigore solo all’inizio della prossima legislatura. Parallelamente, il dibattito sulla legge elettorale ha perso vigore, considerato argomento repellente in tempi di crisi pandemica. Ma il referendum stesso era stato accompagnato da numerose polemiche, che invocavano una riforma più ampia del funzionamento del Parlamento.
Negli ultimi tempi, il dibattito sulla legge elettorale è tornato a galla per lo più attraverso argomenti limitrofi: il vincolo di mandato per i parlamentari e la proposta di estensione del diritto di voto ai sedicenni. Molti politici preferiscono schivare le domande sulla prossima legge elettorale, o sull’eventuale modifica di quella attualmente in vigore. Ciò è comprensibile, in quanto la scena pubblica è al momento dominata da un governo con altre priorità. Ma, a detta di molti politici, gran parte dei problemi di questa legislatura è dovuta proprio all’adozione della legge elettorale Rosatellum, utilizzata per la prima volta in occasione delle elezioni politiche del 4 marzo 2018. È una tesi molto sostenuta dal Movimento 5 Stelle, che occupa tantissimi seggi nel Parlamento attuale ed è stato dalla parte della maggioranza in tutti e tre i governi della legislatura.
In Italia si sono alternate più di dieci leggi elettorali in oltre centocinquant’anni. Il patto di fiducia tra lo Stato e i suoi cittadini, dunque, non si è mai solidificato a sufficienza. Secondo Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, la mancanza di stabilità, nel meccanismo di traduzione dei voti in seggi, è sintomo di un distacco evidente tra Paese legale e Paese reale.
Sempre secondo Cassese, è possibile distillare i grandi problemi, al centro del dibattito sul voto in Italia, ragionando per fasce temporali. Subito dopo l’unificazione, e fino ai primi anni del Novecento, il tema della base dell’elettorato è stato il nucleo della discussione. Con la nascita dei primi partiti di massa, anche la questione della formula elettorale ha cominciato a suscitare discussioni più accese. Il 1923, anno della legge elettorale Acerbo-Mussolini, ha segnato uno spartiacque importante. Alcuni analisti lo considerano il momento esatto in cui il tema proporzionale/maggioritario irrompe per la prima volta sulla scena, seppur in forme ancora rudimentali.
La legge elettorale attualmente in vigore è denominata Rosatellum, e prende il nome dal parlamentare Ettore Rosato, eletto con Italia Viva. Si tratta di un sistema elettorale misto, che assegna il 37% dei seggi con un sistema maggioritario a turno unico. In ciascun collegio si elegge il candidato più votato, secondo il sistema uninominale secco. Il 61% dei seggi è invece ripartito proporzionalmente tra le coalizioni e le singole liste che abbiano superato le soglie di sbarramento nazionali. La ripartizione dei seggi è effettuata a livello nazionale per la Camera e a livello regionale per il Senato.
A tale scopo, sono stati istituiti collegi plurinominali in cui le liste si presentano sotto forma di listini bloccati di candidati, considerati una delle principali lacune di questo sistema. Il 2% dei seggi, infine, è destinato al voto degli italiani residenti all’estero e viene assegnato con un sistema proporzionale con voto di preferenza.
Come riporta il sito della Camera dei Deputati, al momento è in corso, presso la Commissione Affari costituzionali della Camera, l’esame di alcune proposte di legge che modificano il sistema elettorale in vigore.
Una di queste porta l’etichetta del presidente della Commissione Giuseppe Brescia, eletto con il Movimento 5 Stelle, ed è stata adottata come testo base il 10 settembre 2020. Come riporta Sky Tg 24, la proposta di legge Brescellum si basa su quattro punti cardine. L’abolizione dei collegi uninominali, un impianto proporzionale, una soglia di sbarramento nazionale al 5% e l’introduzione di un diritto di tribuna. Quest’ultimo meccanismo garantisce la rappresentanza anche alle forze politiche che non superano lo sbarramento nazionale, elevato dall’attuale 3% al 5%. Una seconda soglia, del 15%, vale di fatto solo a livello regionale, per la Camera, per le liste rappresentative di minoranze linguistiche riconosciute.
La posizione di alcuni dei partiti maggiori, nei confronti della legge elettorale Rosatellum, è cambiata parecchio nel corso della legislatura corrente. Tra questi, il Pd, che aveva votato a favore per il progetto di legge di Giuseppe Brescia, è tornato ad esprimersi poche settimane fa, in corrispondenza dell’elezione di Enrico Letta come nuovo segretario. Nel suo discorso di insediamento, Letta ha però invocato la necessità di un ritorno al Mattarellum, meccanismo costruito nel 1993 per garantire stabilità al sistema politico e favorire la costruzione di blocchi di maggioranza più larghi.
Nicola Zingaretti, segretario dimissionario, aveva invece ribadito la necessità di una legge elettorale proporzionale, che riequilibrasse «lo scempio del taglio dei parlamentari», come lo ha definito il deputato del Pd Matteo Orfini, in un’intervista a Il Manifesto. Zingaretti era inizialmente contrario alla riduzione del numero dei parlamentari. Ma sul referendum aveva trovato un accordo con il Movimento 5 Stelle per evitare una spaccatura nel governo Conte due.
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Il Movimento 5 Stelle, invece, ha molto criticato la legge elettorale attualmente in vigore, e i risultati prodotti dalle ultime elezioni politiche, attribuendogli tanta responsabilità circa l’ingovernabilità del Paese. È stato proprio il Movimento a presentare e sostenere il Brescellum, come testo base per il nuovo sistema elettorale. Giuseppe Brescia l’ha descritta così in un post su Facebook di alcuni mesi fa: «Al momento in commissione c’è un testo base già votato in materia elettorale, è il proporzionale e quello per noi resta il punto da cui partire». Brescia ha inoltre ribadito la posizione del Movimento contraria alle liste corte e bloccate del Rosatellum nei collegi plurinominali.
Il Pd di Zingaretti era stato l’unico partito, assieme al Movimento, a votare favorevolmente la proposta di Brescia. Ma con l’arrivo di Enrico Letta le posizioni del Partito Democratico si sono avvicinate maggiormente a quelle di Fratelli d’Italia. Entrambi i partiti sono favorevoli al ritorno a un sistema più marcatamente maggioritario.
Matteo Salvini, invece, alcuni giorni fa ha detto ad alcuni giornalisti, fuori da Palazzo Chigi, che «la legge elettorale che c’è ora è maggioritaria» e che «va bene quella che c’è». Ma circa un anno fa il deputato leghista Riccardo Molinari aveva presentato una proposta che riesumava integralmente il Mattarellum. Quest’ultimo è stato utilizzato nelle elezioni del 1994, 1996 e 2001, e ha prodotto il governo più lungo della storia repubblicana (il secondo di Silvio Berlusconi). Secondo una recente simulazione di You Trend, se fosse stato utilizzato il Mattarellum, alle politiche del 2018, l’arco di centrodestra in Parlamento avrebbe sensibilmente ampliato il proprio numero di seggi.
Sempre dalla coalizione di centrodestra sono arrivate due ulteriori proposte di legge. La prima di queste, poi ritirata, porta l’etichetta di Giorgia Meloni, e propone di inserire nel sistema elettorale vigente un premio di maggioranza, da attribuire alla lista o coalizione che ottenga almeno il 40% dei voti, mantenendo fissa la quota di seggi da assegnare nei collegi uninominali. Quando Meloni presentò la sua proposta di legge, spiegò di voler mantenere una quota di maggioritario che riguarda il 60% degli eletti, tagliando parte di quella proporzionale. «Noi introduciamo anche il premio di maggioranza – ha spiegato Meloni – cioè se abbiamo una coalizione che arriva al 40% elegge il 50% dei parlamentari». Così «la sera del voto si ha una maggioranza che può esprimere il governo».
Infine, l’onorevole Francesco Paolo Sisto, eletto con Forza Italia, ha proposto di intervenire sulla quota di collegi uninominali in cui è suddiviso il territorio, e sui criteri relativi all’individuazione e al numero di collegi plurinominali; mantenendo però fissa la quota di seggi da assegnare nei singoli collegi.
Anche Matteo Renzi è un attore politico da tenere d’occhio, nonostante lo scarso peso specifico in un governo di larghissime intese come quello di Draghi. Lo Huffington Post aveva addirittura ipotizzato che Renzi avesse mandato in crisi il governo Conte due proprio per ottenere precise garanzie sulla prossima legge elettorale.
In un’intervista a la Repubblica, poco dopo l’esito del referendum del 20 e 21 settembre 2020, Renzi aveva dichiarato di preferire un meccanismo elettorale maggioritario. Ma che «il proporzionale non sarebbe una catastrofe». Renzi, che nel 2016 aveva provato a modificare la struttura del Parlamento, rivendica un meccanismo elettorale proporzionale, con sbarramento al 5%, «sfiducia costruttiva e il monocameralismo, come in Germania». Per il maggioritario, Renzi invoca invece un sistema con ballottaggio, come nelle elezioni comunali. Così «si va a votare, la sera delle elezioni si sa chi ha vinto e si fa un ballottaggio». Il manifesto ricorda che, il 10 settembre 2020, quando era partito l’iter del Brescellum, Italia Viva non aveva partecipato al voto.
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Quello che sostengono Renzi e Meloni, circa la possibilità di conoscere il risultato delle elezioni «la sera stessa», secondo You Trend è un retaggio illusorio di risultati elettorali passati. Il primo tra i sistemi imputati è il Porcellum (2005), che garantiva alla coalizione vincente 340 seggi su 630 alla Camera. In questo modo, dal 2006 al 2013 è stato facile ottenere una coalizione maggioritaria a Montecitorio. Il problema vero era il Senato, dove erano previsti premi di maggioranza regionali. E infatti, la stasi si sarebbe replicata a Palazzo Madama nel 2006, nel 2013 e anche nel 2018.
Il Porcellum fu dichiarato incostituzionale per vari motivi, tra cui la presenza di un premio di maggioranza non vincolato al raggiungimento di una soglia minima. Dopo la sua bocciatura, fu approvato il discusso Italicum, con un accordo tra Renzi e Berlusconi. Esso assegnava i 340 seggi del Senato con un ballottaggio tra le prime due liste, qualora nessuna avesse raggiunto il 40% dei voti al primo turno. Ma anche il ballottaggio dell’Italicum risultò incostituzionale. E a quel punto si è strutturato un sistema elettorale disomogeneo per Camera e Senato (il Consultellum), in vigore prima dell’approvazione del Rosatellum.
Secondo alcuni analisti, i veri problemi della legislatura corrente derivano solo in parte dal funzionamento della legge elettorale. Tanta responsabilità va ricercata banalmente nei risultati che il voto ha prodotto. Nel 2018 le preferenze si sono ripartite in maniera tripolarizzata (centrodestra 37%, Movimento 5 Stelle 32%, centrosinistra 23%), rendendo difficile dal principio la formazione di un governo di coalizione maggioritaria e coerente. Tutto ciò ha costretto attori politici molto diversi a mettersi insieme per poter governare. Un articolo di YouTrend ha dimostrato che i risultati delle elezioni del 2018 avrebbero reso molto difficile la formazione di una maggioranza anche in caso di utilizzo di sistemi elettorali diversi.
L’arrivo di Mario Draghi al governo e l’attuale situazione di crisi pandemica hanno seppellito il dibattito sulla legge elettorale, che però continua a emergere come un fiume carsico mettendo in evidenza le differenze di vedute tra i partiti. In questo senso, un elemento di svolta è rappresentato proprio dall’arrivo di Enrico Letta, al vertice del Pd. Nei giorni scorsi, il nuovo segretario ha incontrato Giorgia Meloni proprio per discutere, tra le altre cose, di una riforma elettorale. L’obiettivo di entrambi è quello di convergere verso un nuovo bipolarismo, che possa consentire l’identificazione di schieramenti chiari e coerenti.
Secondo Il Sole 24 Ore, questo approccio maggioritario di Letta punta ad attirare nell’alveo del centrosinistra attori di minoranza come il partito Azione di Carlo Calenda. Ma anche +Europa (scosso dalle dimissioni di Emma Bonino), poiché entrambi rischierebbero di sparire in caso di ripristino integrale del Mattarellum. Il Pd starebbe dunque lavorando, su due fronti, a una legge elettorale che assegni un premio fino al 55% alla coalizione che raggiunge o supera il 40% dei voti. Nonostante le aperture provvisorie di Letta, il dibattito sulla nuova legge elettorale stenta a decollare. Sempre secondo Il Sole 24 Ore, un test importante verrà fornito dalle elezioni amministrative di ottobre. Un calo anche leggero del centrodestra, al momento dato in saldo vantaggio nei sondaggi, potrebbe spianare la strada a una riforma condivisa del sistema elettorale.
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