La scorsa domenica ha portato solo sorprese a chi segue la politica andina. Tre diverse tornate elettorali in tre diversi Paesi hanno ridisegnato la geografia politica della regione, deludendo tanto chi sperava in un ritorno trionfale della sinistra populista quanto chi auspicava un en plein della destra.
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I risultati tra conferme e stupore
In Bolivia si è tenuta la sfida meno rilevante – solo ballottaggi di elezioni amministrative, niente presidenziali – e anche l’unica in cui l’esito finale era stato ampiamente previsto. Il partito di governo Movimiento al Socialismo (Mas) ha perso tutte le competizioni. A pesare sulla sconfitta – che segue le disfatte al primo turno del mese scorso – sono la capacità di mobilitazione unitaria delle opposizioni e le divisioni interne alla sinistra, che ha affrontato dure liti in fase di selezione dei candidati.
Questa sconfitta indebolisce il governo di Luis Arce, esponente del Mas che ha vinto le presidenziali lo scorso ottobre dopo un periodo di grande instabilità. La Bolivia, infatti, è stata guidata dal Movimiento per quindici anni sotto la presidenza dello storico leader indigeno Evo Morales. Tra i precursori dell’onda rosa – il ciclo di vittorie della sinistra che ha caratterizzato il Sudamerica dei primi anni Duemila – Morales ha costruito un solido zoccolo duro di sostenitori, ma anche una nutrita folla di nemici. Una polarizzazione che ha portato le opposizioni a non riconoscere la sua terza vittoria elettorale nel 2019, costringendolo alla fuga e aprendo la strada al governo ad interim della conservatrice Janine Anez.
Con Arce, giovane ministro dell’economia nei governi degli anni passati, il Mas è tornato al potere e ha promesso di riprendere in mano le politiche keynesiane e di welfare abbandonate dalla destra. La bocciatura alle amministrative, però, non lo aiuterà
Ben più alta la posta in gioco in Ecuador, dove i cittadini hanno scelto il loro nuovo presidente in un ballottaggio contesissimo. A sfidarsi erano Andres Aràuz, economista di sinistra, e Guillermo Lasso, banchiere di centrodestra alla sua terza candidatura. Il profilo del primo ricorda da vicino quello di Arce: già ministro delle finanze, delfino dell’ex presidente Rafael Correa, era il favorito di queste elezioni dopo essersi imposto al primo turno con il 41%. Ma contro i pronostici che lo davano in lieve vantaggio non ha saputo replicare il successo del collega boliviano, e alla fine ha prevalso Lasso. Banchiere, filoamericano, neoliberale, entrato in politica per opporsi alla legge contro i paradisi fiscali (lui stesso possiede un’istituto di credito a Panama), Lasso rappresenta la fine del ciclo socialista di cui Arauz era esponente.
Anche in questo caso la frammentazione del voto ha contato. Il candidato indigeno Yaku Pérez – arrivato terzo dopo aver sfiorato il ballottaggio e chiesto più volte il riconteggio dei voti – ha proposto ai suoi di votare scheda bianca, rifiutando la proposta della sinistra di unire le forze in chiave anti-liberista. Lo stesso ha fatto l’outsider socialdemocratico Xavier Hervás – il “politico di TikTok” popolarissimo tra i giovani.
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Le somiglianze tra il caso boliviano e l’Ecuador non si fermano alle biografie di Arce e Aràuz. In entrambi i Paesi la sinistra populista ha governato quasi ininterrottamente negli ultimi dieci anni. In entrambi i casi la scelta di finanziare il welfare state (anche) con lo sfruttamento delle risorse minerarie ha portato le forze di governo a rompere con una parte del mondo indigeno che inizialmente le aveva supportate. Cambia però il finale: Arce è riuscito a far tornare in sella il suo partito – anche se non ha saputo vincere le amministrative – mentre Aràuz non ha fatto altrettanto.
Totalemente diverse sono invece le vicende peruviane. Nella nazione andina – che non ha conosciuto il predominio della sinistra radicale di Ecuador e Bolivia – ben diciotto candidati si contendevano il posto di presidente, e nessuno era stimato sopra il 15%. I due nomi più quotati per l’accesso al ballottaggio –cen Yonhy Lescano di centrosinistra e Rafael López Aliaga di destra – hanno deluso le aspettative.
Primo a sorpresa è stato Pedro Castillo, leader comunista accreditato dai sondaggi sotto il 3% fino a poche settimane fa. Marxista, insegnante, odiato dagli imprenditori, Castillo è una figura anomala nel panorama politico sudamericano. Il suo partito, Perù Libre, propone la nazionalizzazione del settore minerario e la lotta alle élites economiche, ma a differenza della sinistra radicale egemone nei Paesi latini è molto cauto sui diritti civili. Castillo si è detto infatti contrario al matrimonio omosessuale, all’aborto e all’insegnamento dell’uguaglianza di genere nelle scuole. Tra le sue proposte spicca la volontà di eleggere un’assemblea nazionale che rediga una nuova costituzione. La sua è la vittoria del mondo contadino, povero e spesso disprezzato dalla classe medio-alta delle città. A fare le spese del suo successo è sopratutto Verònika Mendez, leader della sinistra patriottica più vicina al ceto medio ma non altrettanto amata dalla popolazione rurale.
Ci son voluti giorni di scrutinio per capire chi altro dovesse accedere al ballottaggio, ma alla fine ha prevalso Keiko Fujimori, estremista di destra e figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori. Nonostante fosse in carcere per riciclaggio fino allo scorso maggio, l’esponente conservatrice ha superato i numerosi rivali di destra, e può ora sperare nel loro appoggio al ballottaggio. Ha promesso di liberare il padre – attualmente in prigione per le violazioni ai diritti umani perpetrate dal suo regime – come primo gesto da presidente.
Tra un mese il Perù dovrà scegliere tra i due estremi del suo spettro politico in una sfida che si preannuncia accesissima. I media conservatori già accusano Castillo di essere vicino al terrorismo di sinistra, mentre lui promette che da presidente scioglierà il parlamento se questo si rifiuterà di indire un’assemblea costituente.
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Il contesto: l’onda rosa e l’onda blu
Pur in assenza di un’entità politica sovranazionale come la nostra Unione Europea, il Sudamerica è stato attraversato nel tempo da fenomeni comuni. All’alba del nuovo millennio fu l’onda rosa, una serie di vittorie della sinistra radicale e socialista, a scuotere il continente. I primi tre esponenti di questo periodo furono il venezuelano Hugo Chavèz, l’argentina Cristina Kirchner e il boliviano Evo Morales, autodefinitisi “i tre moschettieri”. Ecuador, Uruguay, Brasile e altri Paesi videro andare al potere negli anni seguenti politici di sinistra, e quasi tutto il Sudamerica si colorò di rosso.
Le diverse esperienze di questo periodo sono in realtà molto diverse tra loro, ma alcuni elementi le accomunano tutte: retorica populista, presenza di leader carismatici, politiche redistributive e di welfare, tendenziale ostilità verso gli Stati Uniti d’America.
La serie ininterrotta di successi elettorali della sinistra latinoamericana, però, dura meno di quindici anni. A partire dalla metà degli anni Dieci, infatti, un nuovo fenomeno di segno opposto si impone: l’onda blu.
Con la vittoria del centrista Mauricio Macri in Argentina nel 2015 e l’impeachment della brasiliana Dilma Roussef l’anno seguente, la destra inizia a riconquistare quasi tutti i Paesi protagonisti del ciclo progressista. In pochi anni il Sudamerica cambia di nuovo colore.
Il panorama politico ora appare frastagliato. Il ritorno al potere dei peronisti di sinistra in Argentina, la riconferma del Movimiento al Socialismo in Bolivia e l’inedita vittoria di Lòpez Obrador in Messico hanno segnato un parziale recupero delle forze progressiste, ma la maggioranza del continente resta governata da partiti di centro o di destra. Le elezioni di questa domenica segnano un punto importante per il mondo conservatore e liberale – la fine dei governi socialisti in Ecuador – ma lasciano aperto lo scenario in Bolivia e Perù. La telenovela della politica sudamericana, insomma, si prepara a offrirci nuovi colpi di scena.