Il genere è la costruzione culturale delle differenze tra maschilità e femminilità. Ogni società ha un proprio ordine di genere che organizza le relazioni di potere tra uomini e donne. La base biologica del genere è data per scontata e indica il vero sesso, ossia l’appartenenza alla categoria maschile o femminile, escludendo categorie altre, come le persone transgender.
La prospettiva binaria dominante individua così due generi, uomo e donna, che delineano il vero sé ricalcando l’identità sessuale: maschio/uomo e femmina/donna. L’eteronormatività fissa l’eterosessualità a norma e relega altre preferenze sul piano dell’abnormità. Queste rappresentazioni vanno decostruite per lasciar spazio alla diversità.
Questo problema si presenta in molti aspetti della vita quotidiana, carcere compreso. Il carcere è un’istituzione totale, specchio della società e dei suoi conflitti. Vige al suo interno un sistema di privazioni, privilegi e precarietà, un tempo vuoto, deresponsabilizzante e minante per l’autonomia. Il carcere è un’istituzione mascolinizzata, in cui si intrecciano diversi fattori strutturali.
Gran parte della popolazione carceraria è composta da soggetti vulnerabili e/o problematici. Negli ultimi decenni in Occidente si è registrato un “boom penitenziario”, risultato della combinazione della progressiva estensione dei comportamenti penalmente rilevanti, dei cambiamenti socio-economici, delle politiche migratorie discriminanti e del contenimento dei programmi assistenziali. Ciò ha dato il via al fenomeno del sovraffollamento, gestito in maniera disastrosa.
In carcere i detenuti vengono separati in base a diversi criteri, primo tra i quali il sesso. Esistono poi sezioni protette riservate a condannati per reati sessuali, collaboratori di giustizia ed ex membri delle Forze dell’Ordine. Se il sovraffollamento non consente di dedicare loro sezioni separate, è qui che vengono collocate le persone transgender, mentre nelle prigioni più piccole si opta per l’isolamento. L’esigenza di protezione è dovuta al regime di genere carcerario, che promuove machismo e aggressività.
L’assegnazione a sezioni maschili o femminili segue criteri anatomici. Dunque soltanto gli individui transgender sottopostisi a riassegnazione chirurgica del sesso (la cosiddetta “operazione”) vedono riconosciuta la propria autodeterminazione.
Le statistiche mostrano la prevalenza di detenute transgender male to female, per lo più sudamericane prive permesso di soggiorno, spesso provenienti da situazioni di marginalità e abusi. Queste donne devono spesso affrontare ingenti spese per terapie ormonali e chirurgiche, raramente coperte dalle ASL. Il background sociale preclude loro l’accesso a misure alternative alla detenzione, le sezioni precauzionali ne ostacolano la partecipazione a percorsi trattamentali e ad attività ricreative.
La maggior parte degli individui transgender si trova in carcere per reati connessi alla vita di strada, e spesso è affetta da HIV. La reclusione esaspera la loro già precaria situazione, provocando eventi di autolesionismo. I suicidi in carcere sono molto più frequenti che nel mondo esterno, ma nel caso delle persone transgender salgono ulteriormente.
La condizione penitenziaria nostrana, costata all’Italia una condanna della Corte europea per i diritti dell’uomo, benché affligga tutte/i le/i detenute/i, è per alcune persone particolarmente insostenibile. Parlare di violazione dei diritti umani quando si tratta di violenza di genere devia l’attenzione dal punto. Eppure, i diritti umani potrebbero essere uno strumento per scardinare la violenza di genere, se fossero messi in grado di riconoscerla.
Le teorie abolizioniste vedono nel carcere un sintomo dell’inadeguatezza del sistema penale nel garantire una pacifica convivenza sociale. Esse guardano a soluzioni alternative più umane e funzionali. Un esempio è la giustizia riparativa.
Parlare di abolizionismo o fornire diverse narrazioni sul genere fa suonare diversi allarmi per via della tendenza della memoria popolare a replicare l’austero discorso della Legge. Solo con un pensiero critico e divergente si può decostruire il quadro teorico dominante e trovare soluzioni inedite.
Se l’abolizione è l’obiettivo, tra esso e l’attuale situazione si frappone uno iato. Tale “zona di sviluppo prossimale” può essere colmata con delle riforme. Ma è davvero riformabile un’istituzione come il carcere? Esistono carceri ideali che lasciano pensare a una risposta affermativa, uno su tutti quello di Halden, in Norvegia. Tuttavia esso eccede anche i parametri norvegesi e la sua esistenza è sorretta da molti fattori di difficile replicazione. Nonostante ciò ci sono ampi margini d’azione per migliorare l’esistente.
Si profila fondamentale limitare la discrezionalità delle autorità carcerarie, capillarizzare osservatori e figure garanti, depenalizzare alcuni reati, ripristinare sostegni e ampliare le possibilità di accesso a misure alternative. Altro punto nodale è la politica nazionale, il cui indirizzo stride con le direttive internazionali.
Numerosi sono gli stereotipi e i pregiudizi sugli autori di reato, appiattiti sulla loro carriera criminale, che facilitano il distanziamento empatico. Il primo passo per combatterli è il contatto con certe realtà, che tuttavia non sono facilmente accessibili.
Per arginare gli effetti omologanti è necessario elevare i contenuti, servendosi anche dei media. Ciò non significa eliminare il loisir, bensì migliorarlo qualitativamente. Film e serie TV influiscono sull’immaginario collettivo e possono radicare nuove narrazioni. Un esempio è Orange is the New Black, serie di Netflix che rappresenta l’eterogeneità che caratterizza il contesto carcerario, mostrando sia il grande fardello della pena in termini di sofferenza sia l’umanità delle persone recluse, aspetto fin troppo spesso dimenticato.
Bisogna poi promuovere la ricerca sull’educazione di genere, al fine di elaborare una nuova pedagogia di genere, più sostenibile, equa e inclusiva. Sicuramente si solleveranno resistenze conservatrici di coloro che si sentono minacciati dall’entrata nel sociale del non catalogabile. Tuttavia vanno prese in carico anche queste persone, fornendo loro strumenti per muoversi in un mondo che cambia sempre più velocemente, in una logica di empowerment, partecipazione e cittadinanza attiva universale. A tal proposito la formula più adeguata è il learn to learn, in una prospettiva di lifelong learning, che promuova un pensiero critico e autonomo per tutto l’arco della vita. Al momento però pochi sono gli adulti che partecipano a percorsi formativi in questo senso.
Se questo cambiamento si struttura nel lungo periodo, esso deve partire dall’hic et nunc. Bisogna procedere con interventi diffusi miglioramente penitenziari, di cui sono esempio lo sportello di Arcigay nella casa circondariale di Poggioreale a Napoli o il progetto Donne oltre le mura di Ala Milano Onlus.
Urgono servizi di varia natura che affianchino le/i detenute/i durante e dopo l’esecuzione penale. È essenziale una formazione del personale penitenziario e dei volontari esaustiva e specifica, promossa istituzionalmente. Si auspica poi una revisione delle priorità dei mandati istituzionali, che risultano schizofrenici, e l’elaborazione di profili deontologici più adeguati. Tutto ciò non può prescindere dalla costruzione di un clima meno oppressivo e segregato, più salubre e soprattutto più rispettoso della dignità umana. Regimi di carcere duro non possono che fungere da scuola di criminalità da un lato e teatro di abusi di potere dall’altro. Vanno rifiutate logiche che rispecchiano fazioni e tenere a mente che la liberazione di alcun* è la liberazione di tutt*.
Per approfondire si consiglia la lettura di “Oltre l’identità sessuale” di Flavia Monceri e Sorvegliare e punire di Michel Foucault, da cui sono state tratte le informazioni contenute in questo articolo.
Marco Marsili
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