In Occidente il problema principale del modo di raccontare le culture “degli altri” – come se la fede fosse ancora rigidamente incastrata nella geografia e negli usi e costumi del Paese in cui si nasce – è che si assolutizza molto, e si fa pochissima autocritica. Il risultato è che per il mondo laico la religione, e in particolare quella musulmana, è davvero poco compatibile con la modernità. E quello che l’Europa ha sempre fatto è stato traslare la modernità – la sua – laddove non esisteva, in nome di un progetto di civilizzazione, affinché gli altri imparassero – da noi – la modernità.
Prendiamo l’esempio dell’hijab, il velo utilizzato dalle donne per coprire il capo e le spalle. È passata al Senato francese la proposta di legge che prevede il divieto di portare qualsiasi segno religioso, in pubblico, per chiunque abbia meno di diciotto anni. Inoltre, il secondo emendamento della legge permette alle piscine pubbliche di vietare alle ragazze di indossare il burkini – il costume intero che copre tutto il corpo – mentre il terzo emendamento vieta vistosi simboli religiosi per chi accompagna i bambini in gita scolastica. Se sarà approvata dall’Assemblea Nazionale, diventerà legge.
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Quale problema sociale sarà risolto dai tre emendamenti se entrassero in vigore? La legge non parla esplicitamente di hijab, ma nell’intenzione del partito conservatore Les Républicains vorrebbe bandire «qualsiasi abbigliamento o vestiario che indicherebbe una presunta inferiorità della donna rispetto all’uomo». Il senatore Bruno Retailleau, secondo Le Figaro, vuole sottolineare quella che per lui è un’emergenza: il velo, oltre a essere una «rivendicazione sessista» e un «segno della sottomissione delle donne», è soprattutto «la bandiera del separatismo»: «Non è solo un pezzo di stoffa, ma caratterizza la pretesa degli ideologi islamisti di imporci una contro-società, separata dalla comunità nazionale».
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Non sappiamo se il senatore Retailleau non conosca davvero la differenza tra islam (la religione) e islamismo (l’interpretazione radicale di una minoranza politica), ma dalle sue parole pare di poter cogliere un significativo riposizionamento della destra francese su due questioni legate tra loro in modo curioso: femminismo e nazionalismo. In uno slancio anti-sessista, infatti, il partito LR dice che vuole battersi affinché le donne musulmane siano libere da chi dice loro cosa indossare, e vuole farlo dicendo loro cosa non indossare. Che qualcuna abbia autonomamente scelto di allacciarsi il velo attorno al capo è un’opzione che non tiene nemmeno in considerazione. D’altronde, immuni alla secolarizzazione, nell’islam le donne non pensano con la propria testa e gli uomini sono degli oppressori. Giusto?
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In questa cornice interpretativa è come se venisse tracciata una linea di separazione tra civiltà e barbarie, tra modernità e oscurantismo religioso. Ai popoli “civili” viene riconosciuto un vero e proprio potere morale di controllo dei “barbari”, affinché apprendano dagli occidentali la modernità. Non possiamo fare a meno di vedere in questo la convinzione che solo i Paesi caratterizzati dal rispetto di determinati principi di comportamento abbiano il diritto di decidere cosa è moderno, e quindi eticamente giusto, razionale, ma anche libero. Significa cercare di acquisire una superiorità morale, impadronendosi di un concetto universale per potersi identificare con esso. Proclamare il concetto di libertà, richiamarsi a essa, monopolizzare questa parola, ha come conseguenza la terribile pretesa di sottrarre all’altro la possibilità di scegliere in che modo essere libero.
Già nel 2004 una legge in Francia vietava l’uso del velo nelle scuole. Nel 2010 un’altra legge vietava il velo integrale nei luoghi pubblici. Quella volta la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che il provvedimento non limitava la libertà di religione né la vita privata, mentre l’ONU aveva condannato la legge considerandola un’interferenza sproporzionata con il diritto di manifestare liberamente la propria fede. Sempre secondo Le Figaro, nel 2018 il presidente della Repubblica Emmanuel Macron aveva affermato di non voler «fare una legge che lo vieti per strada», ma aveva giudicato il velo «non conforme alla civiltà francese».
In questo quadro, non deve stupire che i musulmani francesi, e non solo, stiano criticando lo Stato per discriminazioni nei confronti della comunità. Ma se le cose stanno così, torniamo al nocciolo della questione: l’hijab è un’imposizione sessista?
In realtà le donne musulmane indossando il velo non mostrano la loro sottomissione agli uomini, poiché per l’islam la sottomissione del fedele è solo a Dio. Certamente in alcuni Paesi a maggioranza musulmana il velo fa parte di un processo più ampio di segregazione delle donne per garantire l’autorità di padri e mariti su figlie e mogli. Ma l’obbligo di indossare l’hijab non c’è ovunque. Anzi, alcuni Paesi incoraggiano l’adozione di un velo meno invadente, altri consigliano di non usarlo proprio.
Tuttavia, alcune donne vedono il velo come veicolo di emancipazione sociale. In un video del Guardian, la studentessa londinese musulmana Hanna Yusuf spiega come il velo possa essere in realtà una scelta femminista. «Per molte donne l’hijab è uno strumento per rivendicare e avere pieno controllo del proprio corpo» dice Yusuf. «In un mondo dove il valore di una donna è ridotto spesso alla sua sessualità, rifiutare questo concetto non è forse un gesto di liberazione?». Non solo, dopo il processo di urbanizzazione avviatosi tra gli anni Settanta e Ottanta molte donne hanno usato sete fini e colori vivaci per i loro veli per essere alla moda e dimostrare che i loro hijab non erano simbolo di alcuna violenza.
Si pensa che «le donne musulmane non possano pensare con la loro testa», che abbiano bisogno di essere liberate da un’oppressione patriarcale, ma questo dimostra che non è così. Presumendo che tutte le donne con il velo siano oppresse sminuiamo la scelta di quelle che vogliono indossarlo. E se la pressione a indossare l’hijab è giustamente considerata un’oppressione, perché la pressione a non indossarlo viene considerata una forma di emancipazione?
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