Il Leicester – cioè The Foxes, come da nickname – che guidato da un’altra vecchia volpe come Claudio Ranieri porta a termine un campionato epico, vincendo la Premier League. Il Valencia di Rafa Benitez che batte lo strapotere di Real Madrid e Barcellona prendendosi la Liga. Verona e Sampdoria (e in tono “minore” anche Napoli, Lazio, Roma e Fiorentina) che once in a lifetime si appropriano dello Scudetto ai danni delle big nostrane. Scene che abbiamo visto in passato nel calcio. E che, a quanto pare, potremmo non rivedere più a causa della nascita di una Super League dipinta a immagine e somiglianza di pochi club per rappresentare un calcio elitario, da ricchi, completamente contrapposto alla sensazione popolare e alle radici a cui da sempre si aggrappa il gioco.
Una scissione di cui spesso si è chiacchierato. Minacce velate, ipotesi mai confermate, qualche smentita tattica. E poi, nella notte che può cambiare per sempre il pallone, la bomba, con comunicati a raffica quasi furtivi in un orario in cui nessuno può controbattere nell’immediato. Frutto, evidentemente, di una strategia pensata e organizzata silenzionsamente – e quindi pure in maniera un po’ subdola – alle spalle degli altri, per dare vita a quella che appare (a tutti gli effetti) come una massoneria wannabe dei grandi del calcio.
Super League: una questione economica
Pensare che la questione sia già finita è una follia. D’ora in poi i club fondatori, FIFA e UEFA saranno impegnate in una partita a scacchi nella quale difficilmente si arriverà a una fine vicina. Non impossibile una soluzione di compromesso, nonostante uno strappo decisamente evidente e importante da parte dei club coinvolti. Sia nei confronti delle confederazioni che dei campionati nazionali. La voglia di mettere il piede in più scarpe ma di monopolizzare, al tempo stesso, il futuro economico di questo sport (JP Morgan, la banca che finanzierà tutto questo, darà 3,5 miliardi di euro una tantum). Conseguenze leggibili e plausibili? Un impoverimento generale, salvo pochi eletti. Competizioni nazionali prive di importanza (ma non di equilibrio) e coppe europee drasticamente ridimensionate.
Altra follia è credere che non si tratti di una questione meramente economica. Tante squadre dimostrano di poter fare un bel calcio e di tenere, al tempo stesso, i conti in verde per anni. Atalanta, Napoli, Lazio ma anche Borussia Dortmund e svariate squadre europee sono solo alcuni degli esempi più interessanti in tal senso. Non può essere un caso constatare come la stragrande maggioranza dei club coinvolti nella Super League siano società in difficoltà economica e con un bisogno disperato di introiti quasi a fondo perduto per risanare i bilanci. Il tutto dopo spese pazze e contro ogni logica che poi, magari, non hanno nemmeno fruttato trionfi degni di nota. Premettendo che i club, essendo privati, possono ovviamente decidere di fare ciò che vogliono, in ogni regola base d’impresa è palese come, a fronte di un debito finanziario, si debba puntare a un taglio dei costi piuttosto che a un incasso immediato che potrebbe poi comunque dare problemi in futuro. Una valutazione davvero poco volta al futuro che conferma (qualora ce ne fosse bisogno) la poca bontà di questa operazione. Capace di non lanciare lo sguardo oltre il proprio orizzonte.
Le argomentazioni fallaci per salvare il (non) salvabile
Fanno sorridere anche le “argomentazioni” (di una comunque minima parte dei tifosi delle squadre coinvolte direttamente. Ma sarà un caso anche questo…) per giustificare questo schiaffo a ogni regola morale del pallone. Innanzitutto, l’inquietante quanto errato paragone con il modello sportivo americano. In particolare con l’NBA. Un paragone – anche un bambino lo capirebbe – che non ha né capo né coda non solo per la percezione continentale diversa dello sport ma anche per le impostazioni economiche, sociali e persino politiche atte a differenziare questi progetti. Andrebbe inoltre totalmente rivoluzionato il sistema di sostenibilità che orbita attorno calcio. Un’impresa – al momento – più unica che rara.
Ci sarebbe poi da ridire pesantemente sul fatto che molte delle squadre partecipanti non solo non vincano la Champions League da interi anni (qualcuna addirittura non l’ha mai vinta, nemmeno quando si chiamava Coppa dei Campioni) ma si mettano anche sul piedistallo, credendosi migliori delle altre unicamente per il bacino d’utenza. Ritenendo, così, di poter giocare “un campionato a parte”. Un torneo nel quale la base di ogni disciplina motoria professionale, cioè il merito sportivo, va letteralmente a farsi benedire. Dove un invito conta più di un risultato e avere potere più di sognare. Non è un caso, infatti, che molti club anche importanti (come Bayern Monaco, Borussia Dortmund, PSG, Ajax e Porto) si siano chiamati fuori da questo teatro dell’assurdo.
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Da non sottovalutare anche il fattore noia. Le due gare tra PSG e Bayern Monaco sono risultate meravigliose e foriere di un calcio che vorremmo proprio perché rappresentavano eventi eccezionali. Chi si divertirebbe a guardare uno Juventus-Real Madrd per almeno due volte all’anno, se non di più? Diventerebbe una gara come tutte le altre. E si perderebbe un altro tocco di magia.
Adesso cambia tutto
Alcune puntualizzazioni vanno però certamente fatte. Non è per forza giusto, infatti, porre le basi per una nuova guerra tra guelfi e ghibellini. O quantomeno non è la narrativa di cui abbiamo bisogno adesso. Certo, creare un club “privato” porterà, inevitabilmente, all’aumento di un gap. Ma va anche detto che sarà necessario aspettare quali tipologie di proposte potranno arrivare da questi membri del nuovo ordine calcistico in relazione a chi non avrà la possibilità di competere ad armi pare.
Giusto anche spiegare che essere contro il format della Super League non vuol dire per forza essere favorevole alle azioni, le motivazioni e il pensiero di UEFA e FIFA, che certamente non sono organizzazioni al di sopra di sospetti. Lo stesso nuovo format dell’UEFA Champions League sembra una bruttissima copia di quello precedente e pure di ciò che vorrebbe proporre la sfilza di club della Super League.
In conclusione, si può affermare (al netto di una situazione in evoluzione) come stanotte il calcio conosciuto in precedenza sia morto. Attenzione, però: ne nasce uno diverso, che diventerà da una parte quasi totalmente elitario e dall’altra lascerà le briciole ai piccoli e al popolo. Una tipologia di pallone che modificherà anche il modo di tifare, dividendo i puristi dagli experts dei social. Un calcio che sarà percepito in maniera totalmente differente, con due correnti di azione con le quali bisognerà schierarsi, ponderando bene le scelte. Un calcio che perde la sua funzione sportiva e diventa mero business. Che a chi scrive personalmente non piace ma che qualcuno certamente apprezzerà. Un calcio che, da questo momento in poi, non sarà mai più lo stesso.