Sale la tensione sul confine russo-ucraino. Mentre la Russia ammassa enormi quantità di truppe e materiale bellico al confine con l’Ucraina, gli Stati Uniti inviano navi da guerra verso il Mar Nero e la NATO pianifica una delle esercitazioni più imponenti di sempre nel Baltico e nei Balcani.
Il vento della guerra soffia nuovamente e, forse, non solo sul Donbass.
Che il cambio al vertice negli USA avesse ampie conseguenze geopolitiche era un pensiero diffuso tra gli analisti da ben prima che avvenisse davvero, ma che il nuovo presidente Biden si trovasse ai ferri corti con Putin in così breve tempo, forse, un po’ meno. Il passaggio da un presidente statunitense ben voluto dal Cremlino (o, per meglio dire, messo lì appositamente) a uno che definisce il presidente russo «un killer» è stato uno tsunami per gli equilibri mondiali, in particolare nell’Europa orientale. Se prima Putin poteva contare sulla sostanziale volontà statunitense di non impicciarsi nei suoi affari, con Biden le cose sono cambiate e il Cremlino si è precipitato a cambiare a sua volta i propri piani.
Dal punto di vista russo l’Ucraina è il principale fronte di espansione territoriale nonché la più grande fonte di attrito con i Paesi occidentali, in primis Unione Europea e Stati Uniti.
La prima preda del Cremlino è stata la Crimea, territorio formalmente parte dell’Ucraina fin dalla dissoluzione dell’URSS. Questa strana assegnazione (la stragrande maggioranza degli abitanti è di etnia russa) era l’eredità lasciata da un decreto del 1954 con il quale l’allora presidente Nikita Chruščёv cercava di decentrare l’organizzazione della Russia sovietica. Un atto che, al tempo, sembrava squisitamente formale: tutto rimaneva dentro i confini nazionali e nessuno avrebbe mai pensato a cosa sarebbe successo nemmeno quarant’anni dopo con il crollo dell’esperimento sovietico.
La natura arbitraria dell’assegnazione della Crimea è stato però il cavillo che nel 2014 il presidente russo Vladimir Putin ha sfruttato per annetterla unilateralmente alla Russia quasi senza colpo ferire, attraverso un sapiente bombardamento mediatico nei confronti della popolazione, dello zampino dei servizi segreti russi e della già ingombrante presenza in loco della flotta russa del Mar Nero, con tanto di dispiegamento di forze speciali sul territorio senza mostrine né distintivi di riconoscimento, per stessa ammissione (a posteriori) di Putin: i cosiddetti “omini verdi”.
Questo però è stato solo l’inizio, nient’altro che un piccolo assaggio per testare le reazioni occidentali, che sono state decisamente tiepide. Annotato il fatto, poco dopo sono cominciati i disordini al confine orientale dell’Ucraina, nella zona del Donbass, dov’è presente una buona percentuale di cittadini di etnia russa. Con l’attiva partecipazione dell’esercito russo sia sul fronte dei rifornimenti di armi e mezzi blindati che su quello del concreto dispiegamento irregolare di forze speciali russe (alcuni di loro sono stati anche catturati), i territori di confine dell’Oblast’ di Donec’k e dell’Oblast’ di Luhans’k hanno preteso unilateralmente l’annessione alla Russia, o quantomeno l’indipendenza (e ottenendo, comunque, la cittadinanza russa).
Ne è seguita una guerra a bassa intensità mai realmente dichiarata tra l’Ucraina sostenuta dai Paesi occidentali e i separatisti sostenuti (e aiutati concretamente sul campo) dalla Russia, conflitto che dopo vari mesi di scontri ha portato a una fragile tregua, tutt’ora – più o meno – in corso. Com’è logico questo ha significato per l’Ucraina un posizionamento nettamente più filo-occidentale rispetto al passato.
Dopo che la rivoluzione arancione del 2004 aveva dato speranze alla popolazione in questo senso, la salita al potere del filo-russo Viktor Janukovyč aveva congelato l’Ucraina in un non allineamento che di fatto era solo il pretesto per bloccare l’occidentalizzazione del Paese, cosa che l’ha costretto a fuggire all’estero a causa delle proteste popolari dell’Euromaidan. A voler essere maliziosi (ma neanche poi tanto), la perdita di un uomo legato al Cremlino in un Paese chiave come l’Ucraina è stato il la che ha dato il via agli eventi in Crimea prima e nel Donbass poi.
Dopo l’annessione russa della Crimea e la guerra del Donbass la priorità per l’Ucraina quindi non è più solo l’avvicinamento ai Paesi occidentali, bensì la formale adesione alla NATO. Il che sarebbe un colpo durissimo per la Russia, che si troverebbe l’arcinemica alleanza nord atlantica sull’uscio di casa.
Eppure la faccenda non è così semplice. La NATO è un’alleanza prettamente militare e prevede l’intervento dei Paesi membri qualora uno di essi venga attaccato. Questo significa che accettare al proprio interno un Paese di fatto già in guerra porterebbe tutti i membri a partecipare attivamente al conflitto. E questo sarebbe troppo, anche per gli USA di Biden. In questo contesto un intervento boots on the ground della NATO quindi non è poi così scontato, anzi.
Putin questo lo sa benissimo.
Nell’ultimo periodo non sono passati inosservati i possenti movimenti di truppe russe dirette verso la zona di confine tra Russia e Ucraina.
L’esercito russo si sta infatti ammassando: si parla di quarantamila uomini più una quantità enorme di mezzi blindati a soli trecento chilometri dal confine. Ma il diavolo sta nei dettagli: il luogo di concentrazione delle truppe non è tanto alle spalle dei territori insorti nel Donbass quanto più a nord, nei dintorni di Voronež, per minacciare il confine russo-ucraino a nordest. Il Cremlino ha inviato anche altri novemila uomini in Crimea, che vanno a sommarsi alle decine di migliaia già presenti (le bandiere russe indicano sulla mappa i due principali punti di concentrazione di truppe e blindati).
Questo significa almeno ottantamila uomini in totale, armati di tutto punto e posizionati a tenaglia sull’intera Ucraina orientale. Una mobilitazione mastodontica, con truppe che arrivano da tutta la Russia, Siberia compresa, come confermato dal gruppo investigativo Conflict Intelligence Team.
Oltre a questo, il Cremlino ha interdetto la navigazione alle navi straniere nelle acque di propria competenza nel Mar Nero, considerando chiaramente la Crimea in tutto e per tutto territorio russo. Ciò significa di fatto la chiusura dell’accesso al vicino Mar d’Azov e il blocco parziale delle esportazioni di grano e acciaio ucraino, fondamentali per l’economia del Paese.
Nell’era Trump la faccenda del Donbass era stata gestita con distanza, quasi fosse un problema squisitamente europeo e pertanto, secondo la dottrina dell’America First, da lasciare blandamente in mano alla diplomazia senza alcuna prova di forza concreta. Questo ha significato mettere la Russia in una situazione decisamente vantaggiosa per quattro anni, con il ruolo di ago della bilancia in un conflitto dall’esito quindi scontato.
Le cose sono cambiate con Biden: è notizia di poche settimane fa che navi da guerra statunitensi dovrebbero entrare nel Mar Nero entro poco tempo, quello necessario a far scadere il preavviso di due settimane che secondo gli accordi internazionali dev’essere dato prima che delle unità militari possano oltrepassare i Dardanelli in Turchia (membro della NATO). Movimento navale che, a detta dei turchi, pare essere stato annullato verbalmente dagli americani, che avranno tre giorni di tempo dopo lo scadere del preavviso per oltrepassare lo stretto. In caso contrario dovranno dare un nuovo preavviso e attenderne il termine.
Nonostante questa falsa partenza, la nuova presidenza americana si è schierata apertamente dalla parte dell’Ucraina e della difesa della sua integrità territoriale.
Gli Stati Uniti non sono certo da soli nel sostenere l’Ucraina. I Paesi della NATO guardano con molta attenzione a est e la Russia è considerata da tempo una potenziale minaccia per i propri membri, in particolare per quelli nelle immediate vicinanze come le repubbliche baltiche, la Polonia e la Norvegia.
La NATO è nota per le sue imponenti esercitazioni militari, la prossima delle quali si chiamerà nuovamente Defender Europe (nomen omen) e prevederà l’impiego contemporaneo di trentamila uomini da ventisette Paesi diversi (di cui sedici europei, Italia compresa) per quattro mesi di durata. Lo scopo dell’esercitazione sarà dimostrare la capacità di dispiegamento rapido delle proprie forze, in particolare di quelle statunitensi, che partiranno dall’altra parte dell’Atlantico e si schiereranno nel Baltico e nei Balcani a tempo di record, grazie alla collaudata rete logistica che coinvolge in particolare Germania, Italia e i Paesi Bassi e farà trovare ai soldati americani tutto l’equipaggiamento di cui avranno bisogno, senza la necessità di trasportarlo da oltreoceano.
Oltre all’utilizzo delle forze sul terreno, si darà grande risalto alle manovre navali (sia di superficie che sottomarine) così come dell’aeronautica, con l’intento di dare un segnale chiaro al di fuori dell’alleanza: la superiorità tecnologica occidentale farà concretamente la differenza in caso di conflitto.
Nonostante questo, un intervento NATO in Ucraina che vada al di là della fornitura di materiale bellico sembra, per il momento, politicamente lontano. Almeno finché il quadro delle operazioni rimarrà al di fuori del territorio dei Paesi alleati. Nel qual caso, invece, l’intervento militare dovrebbe essere praticamente automatico.
Se la quasi totalità dei Paesi membri dell’Unione Europea lo sono anche della NATO e quindi sul piano militare si muovono in concerto con l’alleanza, sul campo diplomatico la situazione è più complessa.
È di pochi giorni fa la comunicazione del capo della diplomazia europea Josep Borrell, il quale ha affermato che secondo le sue fonti i numeri del segretario della NATO Jens Stoltenberg sull’entità delle forze russe al confine con l’Ucraina sarebbero errati: non ottantamila soldati, bensì centocinquantamila, poi corretto a centomila. Una quantità di truppe tale da lasciare comunque poco spazio all’immaginazione sul perché siano lì.
Oltre a questo si aggiungono le forti tensioni che negli ultimi giorni hanno investito le diplomazie di alcuni Paesi europei. Negli ultimi anni la Russia ha agito impunemente in Europa attraverso i propri agenti segreti con la complicità del corpo diplomatico russo. La lista di assassinii e sabotaggi è lunga e articolata ma basta ricordare il caso dell’omicidio Litvinienko avvenuto con un tè al polonio nel 2006, per rinfrescare la memoria.
Il modus operandi dei sicari russi sfrutta a piene mani la copertura data dalle ambasciate, tanto da aver portato alcuni Paesi dell’est Europa ad espellere formalmente alcuni diplomatici russi, seguiti a ruota dal Cremlino che ha ricambiato prontamente il favore: è il caso della Repubblica Ceca e della Polonia.
La situazione è critica: da una parte uno schieramento di forze mostruoso, dall’altro l’incapacità della diplomazia continentale di fare la benché minima pressione, terrorizzata dal rischio di fornire un casus belli per una guerra convenzionale in territorio europeo. Morale della favola, per ora l’Unione Europea non ha intenzione di applicare nuove sanzioni per paura di svegliare il can che dorme ma, di fatto, gli sta dando esattamente quello che vuole.
Una situazione che ricorda drammaticamente i prodromi della seconda guerra mondiale, quando la minaccia militare della Germania nazista paralizzava le cancellerie europee e si permetteva l’annessione al Reich di territori altrui un pezzettino alla volta, che alzando ogni volta l’asticella delle proprie pretese arrivò al culmine: l’invasione della Polonia. Ma, va sottolineato, questo è avvenuto solo dopo aver annesso l’intera Austria e occupato i Sudeti in Cecoslovacchia, il tutto senza alcuna reazione concreta da parte delle altre potenze.
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