Nelle ultime ore si sta assistendo a un potenziale sconvolgimento dei rapporti diplomatici tra le maggiori superpotenze mondiali a causa dello “scandalo Navalny”, un susseguirsi di accuse, arresti e intrighi di palazzo che sta scuotendo il mondo dell’informazione e del giornalismo da ormai parecchi mesi.
Alexey Navalny iniziò il suo cursus honorum all’inizio del nuovo millennio tra le fila del partito liberale Yabloko, facendo rapidamente carriera nel corso di qualche anno. Laureato in Legge ed economia, nel 2006 si espresse a favore dell’organizzazione della Marcia russa, una manifestazione formalmente volta a difendere le libertà civili dei partecipanti, ma alla quale si unirono presto diverse frange estremiste e xenofobe, trasformando un’iniziativa pacifica in una contestazione ai limiti della legalità.
Negli anni successivi Navalny andò incontro a un rapido processo di radicalizzazione del proprio pensiero politico. Fu dapprima espulso dal partito con l’accusa di nazionalismo, poi venne immortalato in compagnia del noto esponente neonazista Dmitry Diomushkin.
Successivamente, durante un comizio svoltosi in occasione delle Marcia russa del 2011, si espresse in tono duro contro Boris Berezovskij, oligarca e principale finanziatore dei “liberal-democratici”, e Roman Abramovich, imprenditore multimiliardario e presidente del Chelsea FC, considerato dalla stampa internazionale molto vicino al presidente Putin.
Ma ciò per cui Navalny è divenuto così popolare (o, talvolta, impopolare) è il suo blog, tramite il quale iniziò nel 2007 a denunciare la corruzione della politica russa e i presunti sotterfugi elettorali perpetrati da Putin e dal suo partito.
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Quattro anni dopo Navalny partecipò come leader a una delle più grandi dimostrazioni popolari della recente storia russa. A seguito delle elezioni nuovamente stravinte dall’attuale presidente, un immenso raduno fu organizzato fuori dal Cremlino. Partecipò una folla talmente vasta che avrebbe potuto senza troppe difficoltà mettere a ferro e fuoco la sede del governo. Data la natura pacifica della manifestazione, si limitarono a mostrare il proprio dissenso senza l’uso della violenza.
Nel 2013 Alexey Navalny si trovò nelle condizioni di dover affrontare il suo primo grande processo. Fu accusato di appropriazione indebita per una somma pari a sedici milioni di rubli nei confronti di un’azienda di legname. Giudicato colpevole, fu condannato a una pena di cinque anni di reclusione. Solo l’intervento della comunità internazionale e la grande mobilitazione popolare a Mosca riuscirono a ottenere il rilascio e la scarcerazione del detenuto.
Ad altre due sentenze sempre per appropriazione indebita, nei due anni successivi, seguirono i primi attentati. Nel 2017 fu vittima di un paio di attacchi fisici. In uno gli venne versato del colorante chimico verde – conosciuto come zelyonka – che gli provocò ferite all’occhio destro.
L’episodio che ha scatenato, nel giro di brevissimo tempo, l’ira della stampa mondiale si verificò nell’agosto 2020, poco meno di un anno fa.
Mentre era sul volo Tomsk-Mosca, Navalny accusò un gravissimo malore che costrinse il pilota a effettuare un improvviso atterraggio d’emergenza. I suoi familiari – la moglie su tutti – chiesero e ottennero un suo immediato trasferimento in Germania, così che potesse usufruire di cure mediche migliori. Dopo l’arrivo all’ospedale Charité di Berlino e l’entrata in coma indotto, il governo russo dichiarò che Navalny era stato avvelenato con un prodotto tossico chiamato Novichok.
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Più di tre settimane in terapia intensiva non bastarono a sedare la determinazione di Navalny che, tornato a Mosca il 17 gennaio 2021, fu subito fermato dalle forze di sicurezza e condannato per frode fiscale e appropriazione indebita, in relazione al celebre caso Yves Rocher, in cui, almeno secondo il tribunale russo, l’attivista sarebbe stato coinvolto.
Il 28 febbraio, perciò, le porte del carcere di Pokrov si spalancano per accogliere Navalny, vittima sin da subito, secondo il suo entourage, di torture e gravi privazioni.
Dal 31 marzo scorso il detenuto ha messo in atto, come ultimo grido disperato, un rigido sciopero della fame, che sta però di fatto mettendo a serio rischio la sua sopravvivenza. La famiglia e l’avvocato, oltre che il suo medico personale, si sono detti molto preoccupati per le sue condizioni di salute, che peggiorano di giorno in giorno e che potrebbero portare, da un giorno all’altro, a una fatale aritmia cardiaca.
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Ciononostante, l’ambasciatore russo a Londra, Andrei Kelin, durante un’intervista alla BBC è stato categorico. Alla domanda riguardante il perché non fosse consentito a Navalny di vedere il proprio medico ha freddamente risposto: «Nel Regno Unito i detenuti possono vedere il proprio medico personale? Non permetteremo che Navalny muoia in prigione».
Gli Usa e l’Ue si sono schierati a favore del trasferimento di Navalny in una terapia intensiva. Al momento però, oltre alle canoniche promesse di ritorsioni politiche, nessun organo internazionale si è attivamente e concretamente impegnato per trasferire il prigioniero in una struttura ospedaliera.
La frattura politica tra Occidente e Russia sembra sempre più sul punto di provocare un sisma diplomatico irreparabile e senza precedenti storici. Per il momento il Cremlino, smentendo tutte le accuse di sevizie e attentati verso l’oppositore politico, garantisce la sopravvivenza del detenuto, che sembra però minata da una condizione di salute sempre più precaria.
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