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Curiosità

Francesco Nucera: è il momento di raccontare i soccorritori

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Laura Bruschi

Cambio vita: vado a fare il soccorritore è un libro scritto da Francesco Nucera e pubblicato da AUGH! Edizioni a fine 2020. Racconta delle vicende di Marco e Bruno, due soccorritori che si trovano coinvolti in una vicenda tragicomica durante il primo lockdown del 2020 in Lombardia. Oggi theWise Magazine ha incontrato Francesco Nucera per parlare del suo libro e del mondo del soccorso.

Da dove nasce la tua passione per la scrittura?

«Lavoro come soccorritore dal 2002 e scrivo da sempre. Il mio primo lavoro è uscito nel 2017: si tratta di una raccolta di racconti che nasce grazie alla mia esperienza nella gestione dell’associazione culturale Minuti Contati, che si occupa di scrittura e racconti. Ho iniziato da utente, poi sono diventato moderatore e adesso mi occupo di ideare e moderare i contest letterari dell’associazione. Con questa esperienza ho capito che scrivere in modo professionale è diverso rispetto a farlo in modo amatoriale. Questa esperienza mi ha dato modo di mettermi in gioco con la scrittura. È un modo per confrontarsi, fare esperienza e imparare. Confrontarsi è fondamentale nella scrittura.

Nel 2018 ho pubblicato il mio primo romanzo, a cui ne sono seguiti altri due. Cambio vita: vado a fare il soccorritore è il mio quarto romanzo e la mia quinta pubblicazione».

Il romanzo di Francesco Nucera. Foto: Laura Bruschi.

Da dove nasce l’idea per Cambio vita: vado a fare il soccorritore? Perché questa scelta narrativa?

«In realtà io non volevo scrivere di soccorso. Questo perché se già è difficile scrivere, scrivere di qualcosa che si vive tutti i giorni lo è ancora di più. Si rischia di entrare troppo nei personaggi e di piacere solo a sé stessi. Inoltre, scrivere di soccorso mentre sto facendo “gavetta” come scrittore poteva essere un passo falso.

Poi è arrivata la pandemia e mi sono reso conto che i soccorritori non valgono niente, che siamo spesso dimenticati. In quel periodo, ho aperto una pagina Facebook in cui ho iniziato a scrivere i miei pensieri. Grazie a questo ho capito che si può scrivere di soccorso, ma ho anche capito che non mi interessava scrivere il diario di un soccorritore. Ho contattato il mio editore, con cui ho pubblicato gli altri romanzi, e abbiamo deciso di provare.

L’altra grande componente del libro è Rozzano, dove lavoro e dove vivevo fino a poco tempo fa. Rozzano offre tanti spunti. Ho unito le due cose ed è nato Cambio vita: vado a fare il soccorritore. È una storia del soccorso di tutti i giorni che si intreccia con la vita privata dei protagonisti. Il soccorso, a un certo punto, diventa quasi secondario per lasciare spazio ai personaggi. Alcuni lettori si sono lamentati di questo aspetto, sostenendo che i personaggi potevano anche non essere soccorritori. Personalmente non sono d’accordo. La vita del soccorso è ben presente nel libro e credo sia importante raccontare dei soccorritori una volta tolta la divisa».

Leggi anche: Francisco, il “matto buono” dei frati.

Hai detto che la pandemia ti ha fatto capire che i soccorritori sono dimenticati. Perché dici questo? Pensi che creare una narrativa che coinvolga di più i soccorritori possa essere di aiuto?

«Io ho iniziato proprio per questo. Penso ci sia bisogno di parlare di soccorritori. Riflettendo mi è venuta in mente la figura del poliziotto che, tra le altre cose, si è nobilitata con i telefilm degli anni Settanta e con il giallo poliziesco, fondamentali per fare entrare i poliziotti nella vita di tutti noi. Chiaramente io non ho il potere di fare questo, però inizio a fare un primo passo. Inizio con il vedere se qualcuno, tramite il mio romanzo, si interessa al mondo del soccorso e a come i soccorritori vivono una volta tolta la divisa. Ma ci sarebbe bisogno di tanto altro».

Di cosa pensi ci sia bisogno?

«Sto lavorando, insieme ad altri colleghi, a un movimento per richiedere più tutela dei soccorritori. Siamo invisibili, ma siamo anche essenziali. Da gennaio abbiamo istituito Milano Coordinamento Soccorritori (MCS): partiamo da Milano perché è una delle città più problematiche. Il mondo del soccorso è frammentato. In Lombardia si basa tutto su appalti, in altre regioni funziona diversamente. Le convenzioni che entrano in vigore in questi giorni [e che vengono rinnovate ogni quattro anni, N.d.R.] hanno ridotto gli equipaggi da tre a due soccorritori. Noi riusciamo comunque a concludere il servizio, ma va a discapito del paziente. Potremmo fare molto di più. Non abbiamo molte tutele e siamo in balia del precariato, vorremmo cambiare questo».

La dedica del romanzo. Foto: Laura Bruschi.

Il tuo libro tratta di temi sociali molto importanti, come il femminicidio e la criminalità organizzata. Da dove arriva l’ispirazione per questo?

«L’ispirazione arriva dal lavoro stesso. Nessuno dei servizi descritti nel libro è reale, ma tutti prendono spunto da qualcosa che ho vissuto. Il tema del femminicidio, per esempio, riprende un servizio che mi è capitato di vivere da soccorritore.

Come soccorritori, a differenza di medici e infermieri, noi entriamo nelle case delle persone, non abbiamo un filtro che ci protegge. Viviamo nell’impatto delle situazioni. Molti, e altri, di questi temi li ho vissuti e toccati con mano. Poi sappiamo lasciarceli alle spalle, l’esperienza aiuta tanto in questo. Come si vede nel libro, però, sono fondamentali i momenti di risate con i colleghi, ci servono a non somatizzare quello che viviamo. Un attimo prima siamo in ambulanza a scherzare e sdrammatizzare, quello dopo siamo a salvare qualcuno. Senza questi momenti di leggerezza sarebbe difficile.

Inoltre non è sempre facile scindere la vita privata dal lavoro, soprattutto quando si toccano tasti delicati. Non sempre ci riusciamo, è molto difficile. Anche nel libro il protagonista si trova in una situazione delicata e in cui non riesce a controllarsi, è una verità del nostro lavoro».

Leggi anche: Coronavirus: theWise racconta la battaglia di Cristina.

Il libro inizia a marzo 2020. Per te, scrivere il romanzo è stato un modo per affrontare meglio la situazione causata dal coronavirus?

«Il romanzo l’ho scritto in un mese, un tempo anomalo nel mondo dell’editoria. Avevo l’ispirazione ed era il momento ideale per coniugare scrittura e soccorso. Da una parte è stato difficile, dall’altra i personaggi del libro sono le persone che mi circondano. Un collega come Marco, un autista come Bruno o una soccorritrice come Beatrice sono presenti in qualsiasi associazione di soccorso. I personaggi mi hanno tenuto compagnia in quel periodo strano e in quelle notti insonni».

Com’è stato vivere quel periodo da soccorritore? Cosa è cambiato ora?

«All’inizio c’era tanta paura data dall’inconsapevolezza, non sapevamo quanto fosse aggressivo il coronavirus. Quando arrivavano gli ordini dall’alto capivamo che erano casuali. A volte gli ordini del giorno prima erano diversi da quelli del giorno dopo. Le mascherine FFP3, che sembravano indispensabili, sono sparite dopo una settimana. Poi ci hanno comunicato di entrare in casa dei pazienti con solo la mascherina chirurgica. Dopo sono arrivate le mascherine FFP2. Anche le tute di protezione sono finite subito. Per qualche tempo abbiamo usato le tute da imbianchino comprate nei negozi di fai da te.

Quando la pandemia è scoppiata nella zona di Bergamo è stato terrificante. Era vicino a noi, la gente continuava a morire, i colleghi che erano stati spostati in quelle zone non avevano mai notizie positive.

Oggi l’attenzione rimane alta, ma siamo più tranquilli. Continuiamo a stare attenti sugli interventi e continuiamo a proteggerci, ma siamo più rilassati. Il vaccino ci ha aiutato tanto in questo».

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