La fronte ampia come l’oceano. Le pupille nereggianti come isole nel mare. I baffi come coste a mezzaluna. Il suo volto, come un mappamondo, contiene tutte le latitudini del globo. Dall’America latina al Messico. Dagli Stati Uniti all’Africa. Da Torino, dove il viaggio ebbe inizio, a Roma. E poi La Avana. Città del Messico. Cuba. Buenos Aires. Parigi. Berlino. «Forse ho visto troppo mondo, ho incontrato troppe persone». Ora è il tempo di ricordare, anzi di «non dimenticare più». Nasce così la meravigliosa Storia di un boxeur latino di Gianni Minà (Minimum Fax, 2020, pp. 146), dall’esigenza improcrastinabile di fermare finalmente sul nastro di carta «il lungo, e rocambolesco film della mia fortunata esistenza».
Quella stessa carta (stampata) di Tuttosport che, sulle ceneri degli anni Cinquanta, lo inizia al giornalismo. Da lì, con un microfono e una curiosità indomabile, il boxeur arriverà ovunque. Anche alla fine del mondo, nel 1974 in Zaire, dove Muhammad Alì stendendo Patterson si riprende il titolo dei pesi massimi nel match del secolo. Minà sobbalza ancora per l’emozione, e noi con lui quasi quarant’anni dopo ci rintrufoliamo clandestinamente nella Rumble in the Jungle, fin dentro gli spogliatoi a salutare the Greatest appena presosi l’immortalità.
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Ma è soprattutto uno il Sud del mondo che ha calamita a sé il baffo più famoso e curioso della nostra tv: l’America latina. Più che un continente una geografia interiore, una costellazione sentimentale che affiora continuamente come un richiamo tribale, un canto di sirene, un’utopia di un altrove. Minà ci guida sulle strade scombiccherate del mondo latino, così suadente e verdeggiante, lussurioso e malavitoso, ebbro di vita e insanguinato, che ci blandisce a ritmo di musica popolare brasiliana o di salsa cubana. Patria di generali. Rivoluzionari. Condottieri. Poeti. Musicisti. Romanzieri. Pugili. Corridori. Accanto a lui ci abbandoniamo alla saudade di Vinìcius de Moraes, ai sogni di «Gabito» Marquez , alla tromba di Chet Beker, alle strategie di Fidel Castro e Hugo Chàvez, agli arazzi visivi di Eduardo Galeano e Osvaldo Soriano, alla resistenza civile di Luis Sepùlveda, al confessionale dolceamaro di Maradona, e lo vediamo cannoneggiare il sanguinario Jorge Videla.
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Ma in questo confessionale aperto che erutta continuamente lapilli di emozioni e frammenti di ricordi, Minà si accoccola anche nel nido intimo dei ricordi. Sfogliando l’album di famiglia, dallo zio di Russia al padre che conquista la madre a suon di cartoline. Ma c’è di più. C’è anche il richiamo al proprio paese. All’Italia che dimentica le macerie della guerra nei molleggi di Celentano, negli acuti di Mina, nella comicità ammalinconita di Troisi, nella grazia incorruttibile di Isabella Rossellini. Minà c’è anche lì, seduto sul crocevia della nostra storia nazionale. A cena con Morricone, Bacalov, Gianni Morandi e Celentano che ridisegnano la canzone d’autore. Stipato in una 600 di fortuna con i Beatles che si prendono Roma. In mezzo alle liti liti tra Gino Paoli e Luigi Tenco. A tirare tardi tra fiumi di vino con Nereo Rocco e Gianni Brera. Al Quirinale premiato da Pertini. A convincere Mennea a (ri)diventare l’atleta più veloce del mondo. In trattoria con Sergio Leone e Fellini, pronto a spiargli il suo Blitz per disegnarsi nella mente il suo Ginger e Fred.
C’è però un posto, però, dove ha dovuto smettere di intrufolare i suoi baffi. Il continente che più di tutti gli apparteneva, e che gli ha decretato l’embargo totale. La Rai, madre irriconoscente, cui ha regalato la vita e la concretissima utopia di una televisione colta, ma non professorale. Divulgativa, ma mai pedante. Popolare e mai populistica. Schiava della curiosità e mai dell’audience. E che invece lo ha defenestrato senza troppi complimenti appena il boxeur latino ha cominciato a mirare troppo in alto i suoi ganci contro il potere e le ingiustizie: «Avevano deciso di liquidarmi così, senza clamore con un metodo più semplice e più collaudato, il metodo dell’oblio».
Per questo, in tempi di semiclandestinità, con una Nazione ganasciata di fronte a una tv grottescamente supina al profitto e insozzata da decenni di becerume berlusconista, che ha disconosciuto uno dei suoi figli (e insieme padri) più illustri e memorabili, quest’autobiografia, intarsiata di un così fine immaginario letterario, agile come gli scatti di Mennea o i ganci di Alì, visionaria e malinconica come i libri di Marquez, arriva come una boccata d’ossigeno. Come un breviario di storia del Novecento, e insieme una splendida lezione di etica giornalistica, inguantata dal gusto dell’aneddoto brioso e galante per sintetizzare una personalità, un’idea di mondo, un modo d’essere. Cominciare a non dimenticare più che Gianni Mina è il giornalismo italiano, è un dovere civico. E un atto d’amore verso se stessi.
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