Di sé stesso diceva di conoscere «sì e no, duecento parole», il che sarebbe bizzarro per uno scrittore di mestiere. Il suo nome di battesimo era un diminutivo e lui, invece, un omone di tempra emiliana. Si vantava anche di assomigliare a Josif Stalin per via dei folti, iconici baffi, attributo ancora più paradossale per un accanito anti-comunista. La citazione più celebre di Giovannino Guareschi, che ne riassume la vicenda biografica e intellettuale, è anch’essa un paradosso: «Non muoio neanche se mi ammazzano».
Guareschi nasce a Fontanelle di Roccabianca, in provincia di Parma, il primo maggio 1908. Pure il suo compleanno è un paradosso, considerando che la Festa del lavoro ha sempre avuto una connotazione orientata a sinistra. Tanto che nel 1955 papa Pio XII sentì il bisogno di istituire, per la stessa data, una ricorrenza a San Giuseppe Artigiano, affinché la celebrazione del lavoro non fosse egemonia di quella parte politica così avversa alla Chiesa.
Proprio su questa conflittualità tutta italiana, concretizzata nella geografia dei piccoli paesi di provincia dove il circolo della parrocchia guarda in cagnesco il circolo dei comunisti sito al lato opposto della piazza, Guareschi avrebbe creato i suoi personaggi più fortunati. Protagonisti, questi ultimi, di centinaia di racconti, svariati film e, oggi, di un vero e proprio brand turistico culturale. Soprattutto, Don Camillo e Peppone, con tutte le problematiche annesse, sono parte integrante della cultura popolare italiana, proprio perché qui vi affondano le radici.
Cronista e umorista
Il destino da scrittore discusso e controverso era segnato per Guareschi sin dalla gioventù. Nato nella campagna emiliana, popolata da quei mezzadri dal volto ruvido e i modi bruschi che Bernardo Bertolucci avrebbe immortalato in Novecento (1976), Giovannino in collegio conosce il più anziano Cesare Zavattini e fonda con lui un giornale studentesco. È sempre Zavattini a fornirgli i suoi due impieghi fissi. Alla Gazzetta di Parma Guareschi fa rapidamente gavetta e diventa capocronista, e passa poi al Bertoldo, periodico umoristico di Rizzoli per cui crea vignette surreali e graffianti.
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La passione per il disegno non avrebbe mai abbandonato Guareschi. Il suo talento grafico, straordinario, si ritrova anche nella sua firma, dove la «G» iniziale è scritta in modo tale da formare il profilo di un uomo severo e baffuto. La concomitanza fra autografo e autoritratto è significativa. La prosa di Guareschi, esattamente come il suo tratto, è semplice ma mai scontata, dolce e nervosa come le colline di Parma. La sua penna, in entrambi i casi, osserva la realtà della provincia italiana a cavallo fra Fascismo e Dopoguerra e la deforma con raro spirito ironico.
Guareschi a Milano
Guareschi, si diceva, inizia a lavorare come cronista. Varie fotografie d’epoca lo immortalano a cavallo della bici, il mezzo di trasporto migliore e più economico per la pianura della Bassa emiliana. Con quella attraversa le campagne e i paesi, correndo lungo i campi coltivati e gli argini del Po. Proprio come faranno, di lì a qualche anno, Don Camillo e Peppone. La bicicletta però lo porta più lontano del previsto e nel 1936, anno di fondazione del Bertoldo, si trasferisce a Milano con la fidanzata di allora.
La Milano di quegli anni non è quella del boom che vent’anni dopo accoglierà l’anarchico della letteratura italiana, Luciano Bianciardi, e che lui stesso racconterà nel più impietoso ritratto dell’Italia contemporanea, La vita agra (1962). Guareschi la descrive ne La scoperta di Milano (1941), suo esordio come romanziere presso quella Rizzoli che tramite Zavattini l’aveva accolto a braccia aperte. Si tratta di un romanzo dall’umorismo leggero e acuto, cui farà seguito nello stesso anno il surreale Il destino si chiama Clotilde e tre anni dopo Il marito in collegio. Le prime prose di Guareschi sono una scarica sferzante di proiettili satirici, una specie di estensione in lettere delle sue caricature umoristiche.
Finora, la storia di Guareschi è semplicemente quella di un giovane giornalista e scrittore di riconoscibile talento e belle speranze. Il suo carattere emiliano, frizzante come Lambrusco e schietto come una badilata, gli ha dato problemi solo una volta. Nei primi anni Quaranta, dopo una sbornia, si lascia sfuggire qualche insulto di troppo all’indirizzo di Benito Mussolini e nel 1943 viene richiamato alle armi.
La trilogia della prigionia
Il 1943 è l’anno del «Tutti a casa!» immortalato dall’omonimo film di Luigi Comencini del 1960, con Alberto Sordi. Guareschi si trova come tenente di artiglieria ad Alessandria e si rifiuta di combattere per i tedeschi. Inizia quindi il suo primo periodo di prigionia, in Polonia e poi in Germania. Da questo benino, le cui compagne sono «Fame, Freddo e Nostalgia», nascono La Favola di Natale (1946), Diario Clandestino (1949) e il postumo Ritorno alla base (1989).
Sono opere, queste ultime, in cui l’umorismo non viene mai a mancare, ma si coniuga con l’amarezza, il crudo realismo, la sofferenza vissuti dall’autore sulla propria pelle. Fra tutte, La Favola di Natale è una dolce, a tratti struggente, cantata che racconta del ricongiungimento, fiabesco, fra un bambino e il proprio padre prigioniero in Germania.
La necessità di un Mondo piccolo
Guareschi torna nel 1945 in un’Italia stremata ma pronta a risollevarsi. Vi fa ritorno armato di un rinnovato spirito critico e soprattutto di nuova inventiva. L’Italia che aveva lasciato due anni prima non esiste più. Le dicotomie politiche, il progresso, la progressiva scomparsa degli antichi signori e contadini e del mondo pre-industriale sono lì da venire. Quel mondo che sta nascendo Guareschi non riuscirà mai a capirlo fino in fondo e pertanto gli dichiara personalmente guerra.
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Molti degli scrittori del Novecento italiano si confrontano, a modo proprio, con la seconda metà del secolo breve. Italo Calvino lo farà con le sue favole ecologiche, Dino Buzzati con le sue fiabe inquiete, Luciano Bianciardi e Pier Paolo Pasolini da eterni eterici e corsari contro il mare del progresso, l’uno sentendosene sconfitto in partenza e l’altro sconfiggendolo con la propria morte. Il terreno di battaglia di Guareschi, dichiaratamente monarchico, cattolico e conservatore, è un altro: il Mondo piccolo. Il suo quartier generale, il periodico Candido.
Don Camillo e Peppone
La saga di Don Camillo e Peppone consta di trecentoquarantasei racconti, svariate raccolte e cinque film fra il 1946 e il 1967, senza contare i postumi che, nel caso di un autore poliedrico come Guareschi, sono più delle pubblicazioni in vita ed escono in libreria con una costanza tale da far pensare che davvero quel «non muoio neanche se mi ammazzano» non fosse solo una battuta.
Le storie del parroco reazionario che parla con il crocefisso e del sindaco comunista dal cuore d’oro fanno capolino su Candido, rivista satirica fondata da Guareschi stesso dopo la guerra, e sono ambientate in quello che l’autore chiama “Mondo piccolo”. Una striscia di terra dove il Globo si fa paese, la Guerra fredda scontro in osteria e il Po in piena inonda i campi, i paesi, le chiese.
Il successo è inestimabile. Gli italiani, abitanti di un Paese che ovunque è provincia, ritrovano nei battibecchi fra Don Camillo e Peppone quelle maschere di mediazione fra conflitti che sono alla base del meccanismo stesso della commedia all’italiana. Si tratta di un ingranaggio chiaramente conservatore, che unisce la grande Storia e le piccole vicende degli uomini sotto lo sguardo ironico di un narratore esterno e talvolta paternalista. Lo stesso di Alessandro Manzoni, che per Guareschi è un modello imprescindibile (e poco importa se nella prefazione al primo Don Camillo scrive, come captatio benevolentiae, che le sue non sono «balle di letteratura»).
Don Camillo al cinema
Per la prima delle riduzioni cinematografiche, coproduzione italo-francofona della Cineriz del 1952, viene chiamato un attore francese, quel Fernandel dal sorriso equino e dalla possente presenza scenica, a interpretare proprio Don Camillo. La parte di Giuseppe Bottazzi detto Peppone è affidata proprio a Guareschi, che però non è mai stato bravo a fingere. Quando il regista si accorge che nelle scene di litigio lo scrittore mena per davvero gli altri attori, lo sostituisce con il conterraneo Gino Cervi.
Alcune delle scene dei film superano in fama i corrispettivi letterari e la versione inglese si fregia di una voce narrante d’eccezione quale Orson Welles. Il capitolo più marcatamente anti-comunista della saga, Il compagno Don Camillo del 1965 diretto dal già citato Comencini, si sposta in Russia e segna anche il declino della creazione letteraria di Guareschi, che nel giro di qualche anno ha smarrito quella fenomenale capacità di mediazione che ne aveva decretato la fama.
Contrordine compagni!
Dal canto suo, Guareschi stesso alla mediazione preferisce il conflitto e diventa l’intellettuale di riferimento della Democrazia Cristiana. Suo lo slogan «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!» e quella che forse resta la sua più felice creazione fumettistica: la saga dei «Trinariciuti», i comunisti la cui terza narice serve a svuotare il cervello per accogliere gli ordini dell’Unità, costantemente fraintesi. Nell’universo di Guareschi, il quotidiano comunista presenta errori di battitura per cui la frase «Bisogna battere il ferro finché è caldo» diventa «Bisogna battere il verro finché è caldo». Ed ecco i militanti trinariciuti intenti a darle di sana pianta a un innocente maiale.
Palmiro Togliatti dichiara pubblicamente che Guareschi è «l’uomo più cretino del mondo» e Guareschi lo ringrazia. La sua battaglia personale contro il mondo si estende però, a un certo punto, anche a quella parte politica che lui stesso ha contribuito a far vincere alle elezioni. Nel 1950 una vignetta su Luigi Einaudi gli procura una condanna per vilipendio al Capo dello Stato. Nel 1954, infine, la pubblicazione di alcune lettere attribuite ad Alcide de Gasperi, poi rivelatesi false, lo porta in galera per diffamazione. È il 26 maggio 1954 e Guareschi passerà i successivi quattrocentosei giorni in prigionia, la seconda della sua vita.
Il prezzo della libertà
«Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione», dice lui. Le continue battaglie, l’eterno conflitto con la sinistra e ora anche con la destra e i successivi travagli lavorativi, che lo fanno transitare da un giornale all’altro, gli minano fortemente il fisico e la salute. Nel 1961 Guareschi ha un primo infarto.
Critico verso il Concilio Vaticano II e verso tutto il mondo giornalistico italiano, nel 1964 compie un gesto che lo distingue da qualsiasi intellettuale del tempo: apre un ristorante a Roncole Verdi, il paese natale dell’omonimo compositore. Colpito da un secondo infarto, Guareschi muore il 22 luglio 1968. La notizia passa in sordina, esclusi alcuni commenti perlopiù critici. L’anno è quello che cambierà, per l’ennesima volta, le sorti di quel secolo breve contro cui ormai Guareschi si era trincerato.
Guareschi regista
Giovannino Guareschi, viso bonario e baffoni paterni, di quel Novecento che ha racchiuso la sua vicenda biografia davvero ha accettato ben poco. Chi studia l’opera dello scrittore, pur sforzandosi di soprassedere sui suoi numerosi eccessi davvero reazionari, non può non restare basito di fronte a quella che rimane forse la sua testimonianza più controversa: il film La Rabbia del 1963.
Si tratta di un documentario voluto dal produttore Giacomo Ferranti, che ebbe la pessima idea non solo di descrivere il mondo visto sia da destra che da sinistra, ma pure di chiamare gli uomini, rispettivamente di sinistra e di destra, meno inquadrabili del tempo: Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi. I due non si incontrano nemmeno una volta durante la produzione del film, lavorano anzi sostanzialmente ignari l’uno dell’altro. Le visioni di entrambi coincidono tuttavia nel sostanziale pessimismo verso una contemporaneità disumanizzante e consumistica.
Guareschi contro Pasolini
La sezione di Pasolini è un lungo, ieratico poema colmo di temi cari all’autore, fra cui spicca una struggente dedica a Marilyn Monroe come emblema di una bellezza innocente divorata dal sistema economico. Quella di Guareschi, condita dell’usuale ironia, ha la voce narrante di Carlo Romano, doppiatore di Fernandel. Dalla critica alla musica jazz a quello che per Guareschi era lo scandalo della decolonizzazione, il risultato è un’invettiva già allora fuori tempo massimo. Vista oggi, è spiazzante perché innervata di un razzismo inaccettabile.
Il film resiste in sala circa una settimana, per poi venire ritirato. La metà di Pasolini circola con mezzi di fortuna, mentre quella di Guareschi viene condannata alla damnatio memoriae. Pasolini stesso rifiuta di associare il proprio nome a quello dell’autore parmigiano. Nel 2008, alla Mostra del Cinema di Venezia, viene ripresentata, restaurata, la sola sezione di Pasolini per volere di Bertolucci in persona, che si dice impossibilitato a sposare quanto espresso da Guareschi nel film. Bisogna aspettare il 2009 perché la sezione di Guareschi riveda la luce.
Il dilemma insito in quest’opera è che il copione dell’autore di Don Camillo è ingiustificabile, carico di un odio che può essere spiegato (ma non scusato) ripetendosi che davvero Guareschi, dove stesse andando il mondo, non lo capì e non lo seppe accettare.
Guareschi oggi
Leggere Guareschi oggi è operazione rischiosa. Bisogna armarsi di pazienza e di strumenti critici. Il bilancio sarebbe comunque controverso. Tuttavia, è vero anche che Guareschi non ha mai cercato di piacere forzatamente al suo pubblico (che, come ironizzava lui, era di «ventitré lettori», sempre parodiando il Manzoni che ne indicava venticinque). «Non muoiono neanche se mi ammazzano», diceva lui, ed è difficile dargli torto. Giuste o meno che fossero le sue battaglie, le ha perse tutte senza mai scomporsi.
Guareschi, con la sua opera e con la sua vita, ci dimostra davvero cosa vuol dire fare i conti con sé stesso. È raro, per un Paese che i conti con la propria Storia non li ha mai fatti fino in fondo. Guareschi ha commesso mille errori e non ha mancato di pagarne uno. Quanti lo leggano oggi senza condividerne le posizioni, troveranno tesi indifendibili che però mai hanno chiesto difesa.
Chi invece lo leggesse trovandovisi d’accordo, scoprirà un autore che mai si sarebbe sognato di inventare una «dittatura del politicamente corretto» per sostenere certe, inaccettabili, dichiarazioni. Guareschi ha attraversato alcuni dei decenni più complessi della nostra Storia. L’ha fatto senza compromessi, in un Paese dalla memoria corta che troppo spesso il perdono lo concede e, ancora peggio, lo pretende.