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Il concertone del Primo maggio ai tempi del coprifuoco

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Davide Zazzini

Roma. Parco della musica. Cielo plumbeo. Pioggia intermittente. Pubblico tamponato, distanziato e numerato. Mascherine alzate, coprifuoco e voglia di dimenticare: il concertone del Primo maggio stappa la stagione (si spera) degli eventi post-Covid dal vivo. La festa del lavoro che (quest’anno più che mai) non c’è. Precarizzato. Cassintegrato. Perduto per quasi un milione di lavoratori (dati Istat di due giorni fa), nonostante la diga del blocco dei licenziamenti eretta dal governo Conte prima e Draghi poi.

Ambra e Stefano Fresi sul palco. Foto di Roberto Panucci.

Leggi anche: Musica da camera: la Cina e l’epidemia.

Il Primo maggio dei lavoratori

Sul palco trovano spazio tutte le categorie. Metalmeccanici. Farmaceutici. Fattorini. Insegnanti. Operai. Portieri d’albergo. Lavoratori dello spettacolo. La telecamera li cerca tra primi piani di rabbia e desolazione. Sfilano tutte le crisi aziendali. Umanità scippata di un diritto tutelato dalla Costituzione. E volatilizzato dalla pandemia. Ognuno urla il dolore. Il cerchio semantico che li unisce è sempre lo stesso: tutelare. Lottare. Difendere. Combattere. Conduttori e lavoratori. Segretari sindacali e pubblico. Perfino il presidentissimo Mattarella. Sono tutti d’accordo. Peccato che questa sacrosanta vena barricadiera si scontri poi con il muro dell’ipocrisia. Bisogna lottare e difendere la dignità del lavoro. Ma difenderla da chi? Al netto della pandemia, chi l’ha sottratta? Quali aziende? Nessuno che si prenda la briga di fare nomi e cognomi. Di menare le mani. Troppa audacia per la tv di stato che con quelle aziende ci va spesso a braccetto.

«Siamo accendini senza sigarette»

Le migliori intenzioni, così, finiscono allagate in uno scroscio di perbenismo e capi chini. Anche ai cantanti più giovani, davanti al primo microfono che scotta,  non è che importi granché dei diritti dei lavoratori. Cantano (si fa per dire) nella loro bolla. Senza bucarla. Come non fossero minimante sfiorati dal contesto. Reclamando diritti sacrosanti ma egoriferiti: il bisogno di essere amati, di accettare il proprio corpo, di farsi mancare la tipa che non li ama più, di amare chi gli pare. Simbolicamente cantano tutti da soli. Bennato con nove persone. Per dire. La canzone più orecchiabile si intitola “Bla bla bla”. Nomen omen. Un altro novellino urla: «Siamo accendini senza sigarette». Una volta si sarebbe detto senza fiaccole (dell’anarchia). Senza torce. Senza bombe (per i più audaci). Ma tant’è.

Fedez l’incendiario

Per fortuna la scintilla scocca nel dopocena: arrivano i bauli di piazza del Popolo, Ambra, Lillo e Stefano Fresi li menano per tutti quelli che stanno dietro la telecamera. Piero Pelù sventola la bandiera rock della protesta, con un prosimetro a metà tra Brian May e Dante Alighieri. We will rock you. Come fa Fedez l’incendiario. Cappellino nero e sneaker, è lui l’accendino, la miccia e la bomba. Pessimo cantante, ma splendido monologhista nel randellare un certo sudiciume televisivo e parlamentare. Il pubblico è con lui. Lo applaude e lo idoleggia. Facesse solo quello, questo Paese sarebbe migliore. Per una settimana le prime pagine e le polemiche saranno sue.

Fedez sul palco del Primo Maggio. Foto di Roberto Panucci.

Il coprifuoco

Il pubblico di medici e infermieri, intanto, ha voglia di spensieratezza. Dopo un pomeriggio sonnecchioso, col favore delle tenebre comincia a spassarsela. Arriva Madame e salta in piedi. Si dimena. Balla. Si libera. Smania. Ma sul più bello la voglia di dimenticanza viene stroncata dal coprifuoco. Una voce fuori campo lo richiama seccamente all’incubo della realtà. Tutti a casa. Alla svelta. Causa coprifuoco, quello del Primo maggio vince il record di primo concerto con spettatori cacciati prima che finisse. Cominciò che era finita.

Re Edoardo Bennato

Da lì in poi la tv ignorerà la platea evacuata. Così Gianna Nannini premiata da Mogol diventa un fatto per pochi intimi. Per fortuna arriva Capitan Uncino Bennato che si accorge dello spopolamento («Si batte la fiacca, eh?») e arringa il manipolo di pirati clandestini sfuggiti al coccodrillo del coprifuoco con un quarto d’ora di blues rock che vale un concerto intero. Re Edoardo divineggia. Il resto della scaletta scivola senza sussulti. Gazzè, Renga e Fabrizio Moro fanno il compitino. Gallagher da Londra grattugia la chitarra in un video riciclato.

L’esibizione di Edoardo Bennato.

Si spengono le luci, e della marea umana che sciamava un tempo da Piazza San Giovanni, rimane un manipolo di giornalisti inumiditi e una cavea presto svuotata. Ma dentro l’auditorium, al riparo dalla pioggia e da questioni scomode, la stampa quotata, radio e tv possono rimanere tranquillamente a gozzovigliare con gli artisti. Tutti gli altri giornalisti, figli di un dio minore, marcati a uomo dalla polizia, vengono accompagnati all’uscita. Stranezze del concertone ai tempi del coprifuoco. Si torna a casa in una Roma azzittita e barricata in casa con il sentore che nulla in fondo migliorerà per i lavoratori. Che in fondo anche tra un anno torneremo a raccontarci le stesse cose. Che sono solo canzonette. Ma con il sospetto che il vaccino della buona musica, da qualche parte, si possa fabbricare ancora.

Leggi anche: Il futuro dei live club: theWise incontra L’Ultimo Concerto.

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Davide Zazzini

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