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Spettacolo

Bonfiglio Liborio: «Sindaco della città dei matti»

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Andrea Borio

Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (edito minimum fax) è l’ultimo romanzo dello scrittore abruzzese Remo Rapino (classe 1951). Uscito nel 2019, il romanzo di Rapino, dopo essere arrivato tra i finalisti dello Strega dell’anno scorso, si è aggiudicato il premio Campiello 2020. Un romanzo fluviale che abbraccia quasi un secolo di storia italiana (dal 1926 al 2010), attraverso la specola eccentrica della vita di un uomo. L’eponimo Bonfiglio Liborio, uno stralunato “cocciamatte” originario di un imprecisato paese della provincia del Centro-Sud Italia, sperimenta sulla sua pelle di lucido e allucinato osservatore i rivolgimenti e i sommovimenti della storia recente, dall’ascesa di Mussolini fino al nostro immediato passato.

Il romanzo di Rapino è concepito come un memoriale del protagonista, che racconta la sua vita attraverso un idioletto sui generis. La lingua di Liborio è essenziale, grezza, intrisa di dialettismi ed espressioni gergali, ordita su una sintassi che si ingorga su sé stessa, come in un ostinato e intricato labirinto. Ed è lungo il filo d’Arianna di questo labirinto che si snoda il racconto di Liborio, che nel momento terminale della sua parabola esistenziale viene colto da «questo sghiribizzo intricante di raccontare tutto quello mi è successo da quando sono nato a mò che c’ho più di ottant’anni, certo quello che mi ricordo tra na ripensata e l’altra, che non mi posso ricordare tutti i fatti e i fattarelli» (p. 15).

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Bonfiglio Liborio, un tempo circolare

Bonfiglio Liborio nasce nel 1926 in un paese senza nome della vasta e dispersa provincia italiana, tanto frastagliata e diversificata quanto uguale a sé stessa. Tuttavia, come emerge chiaramente dalla parlata del protagonista, la sua origine può essere collocata in una località immaginaria dell’Abruzzo, tra la Majella e il mare. Sono i luoghi di origine dello stesso Rapino, popolati da un universo di storie che sembrano precederci e oltrepassarci.

La struttura di questo romanzo è circolare, come a mimare i tempi lunghi e ripetitivi della vita rurale. Liborio nasce nel suo piccolo borgo di campagna, dove viene cresciuto dalla madre e dal nonno materno. Il padre – dagli occhi uguali a quelli del figlio – se n’è fuggito in America, abbandonando la famiglia; Liborio non l’ha mai conosciuto. Da tutti è riconosciuto come il matto del paese, lo scemo del villaggio: «Mò, quelli là, gli altri, tutta la gente di sto cazzone di paese, vanno dicendo che sono matto. E mica da mò, che me lo devono dire loro, quelli là, gli altri, tutta la gente di sto cazzone di paese che sono matto» (p. 5).

E sempre nel suo paese natale ha fine la parabola esistenziale di Bonfiglio Liborio, dopo decenni di peripezie e peregrinazioni. Il paese è irreversibilmente cambiato sotto il peso di quasi un secolo di storia, di una modernità che ancora stenta ad arrivare. I pochi amici d’infanzia sono morti, la casa di famiglia cade a pezzi, le vie del paese sono irriconoscibili. È il tempo che si dilata e ritorna su sé stesso, preparandosi alla fine: nel cerchio piatto della vita. E mentre i due estremi si ricongiungono, nel frattempo è stato tutto il resto: la guerra, l’amore, la fuga, l’alienazione operaia, la rivolta, il manicomio; la vita.

Microcosmi

Nel frattempo, come dicevamo, è stata la vita. Una vita, quella di Liborio, estremamente dilatata: nel tempo così come nello spazio. I suoi primi anni ruotano soprattutto attorno alla scuola elementare del paese, che Liborio frequenta con impegno e passione. L’incontro fondamentale per la vita di Liborio è sicuramente quello con il maestro Cianfarra Romeo, unico a vedere in lui grandi potenzialità. Agli anni della scuola elementare rimonta l’incontro con il libro Cuore di De Amicis, regalatogli dal maestro Romeo. Libro che lo accompagnerà per tutta la vita, quasi a segnare un fondamentale vademecum esistenziale, da interrogare durante le crisi e le difficoltà.

Ma la scuola finisce troppo in fretta. E nonostante le esortazioni del maestro Romeo a continuare gli studi, Liborio deve velocemente fare i conti con la sua condizione di povero disperato. Comincia così un periodo come dipendente dal funaro del paese, dove impara con le botte e le urla del padrone «le cose storte del mondo» (p. 27). Quella vita povera e grama finisce per temprare, oltre al suo corpo di giovane adulto, anche la sua indole solitaria a distaccata. Una scorza che – amplificata dall’alienazione mentale – lo preserveranno dagli abissi più profondi della storia privata e collettiva.

E mentre la voce del Duce risuona nelle radio e negli altoparlanti della città, annunciando l’entrata dell’Italia in guerra, Liborio saggia nella sua sfera privata le profondità del dolore e le vertigini dell’amore. Prima muore la madre, stroncata da un male incurabile; in seguito, incontra Giordani Teresa, il grande amore adolescenziale della sua vita, finito troppo in fretta. La dimensione in cui ha inizio la narrazione è legata a quella che sembra essere soprattutto una questione privata. Un microcosmo dove i più grandi echi della storia sembrano arrivare attutiti, ovattati, ridimensionati. La storia rimane sullo sfondo di un’esistenza che basta a sé stessa, almeno fino alla lettera che chiama Liborio al servizio militare. Episodio che sancisce una cesura emblematica nella storia personale del protagonista, immettendolo prepotentemente e in prima persona nel Novecento italiano.

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L’ingresso nel mondo e l’alienazione mentale

Rientrato a casa dopo il servizio militare, Bonfiglio Liborio prende coscienza della sua incolmabile alterità rispetto all’ambiente che lo circonda: «quando ero partito non se n’era accorto nessuno, quando sono tornato non se n’è accorto nessuno lo stesso, i conti dei segni neri tornavano precisi un’altra volta ancora!» (p. 70). A partire dalla consapevolezza di questo insanabile cortocircuito, ha inizio la sua lunga e tortuosa fuga nell’Italia del secondo dopoguerra. Liborio si trasferisce allora a Milano, il motore trainante della ripresa economica: immensa e babilonica.

Qui trova velocemente lavoro in una fabbrica di macchine da cucire, «che allora c’era il bum economico e il lavoro girava e parecchio dappertutto, alle fabbriche delle macchine, a quelle dei trattori, a quelle dove facevano le gomme, nei cantieri che le case nascevano come i funghi dopo un’acquata forte» (pp. 84-85). Sempre a Milano Liborio si avvicina all’ideologia comunista, entrando presto tra le frange più attive del sindacato fiommista. Da Milano Liborio si trasferisce poi a Bologna, dove trova lavoro prima alla fabbrica di marmellate Santa Rosa e poi alla Ducati. Impiego che lo porterà definitivamente ad accarezzare le vertigini dell’alienazione operaia.

Sono gli anni in cui l’Italia è attraversata dalle rivolte e dagli scioperi operai: gli anni di piombo. Ma sono anche gli anni in cui la già precaria salute mentale di Liborio viene portata allo stremo dalla monotonia della vita industriale e cittadina. Così la sua testa comincerà progressivamente a riempirsi di deliri di voci e rumori inesistenti: «dietro la testa ha cominciato a risuonare come un’orchestra di porte di ferro sbattute dal vento, un fischiamento forte di treni a vapore, un dai e dai di piatti di banda e grancasse» (p. 90).

Bonfiglio Liborio nella città dei matti

Il momento apicale della parabola esistenziale di Liborio avviene proprio nel corso di una giornata di lavoro alla Ducati. Estenuato dai tempi stretti di lavoro, dai ritmi ripetitivi e dall’insensatezza delle proprie azioni, Liborio domanda al proprio responsabile la ragione di quel lavoro forsennato e senza sosta. Davanti agli scherni del suo superiore, che ride in faccia a quegli interrogativi tanto ingenui quanto definitivi, Liborio reagisce pestandolo a sangue e lasciandolo quasi in fin di vita.

«Non so quanto tempo è durato quel macello, che proprio un macellamento sembrava con tutto il sangue che se ne usciva come da una fontana e la testa che mi ballava di mille rumori, bistanclaque bistanclaque, tata tatan tatatan, tutum tutum, tututum» (pag. 145). La sentenza è irreversibile: Liborio viene arrestato, processato, dichiarato infermo mentalmente e spedito nel manicomio di Imola. Qui passerà il periodo a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, in uno stato di inaspettato benessere. Finalmente ricongiunto all’interno di una comunità in cui riesce a riconoscersi come una persona a tutto tondo e non soltanto come un emarginato abbandonato a sé stesso.

Figura centrale per tutta la permanenza di Liborio in manicomio è il dottore Mattolini Alvise, psichiatra che gestisce la struttura in cui è in cura. Con Alvise Liborio finisce per instaurare un rapporto di ammirazione e rispetto, che sembra ricalcare quello avvenuto in giovanissima età con il maestro Cianfarra Romeo. È attraverso il dialogo, con il dottore Alvise e con gli altri malati, che si mette in atto un percorso di autocoscienza che preparerà Liborio ad affrontare gli ultimi anni della sua vita: il ritorno al paese d’origine, l’accettazione delle proprie stranezze e delle incomprensioni con le persone cosiddette “normali”, la quiete della vecchiaia e la morte.

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Il resoconto di Bonfiglio Liborio e di un secolo italiano

Don Chisciotte (un grandissimo “matto” della letteratura), accompagnato dal fedele Sancho.

Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio è un libro ironico, a tratti carnascialesco, che trattiene a stento un riso grasso e grottesco. La lingua espressionista architettata da Remo Rapino sembra trascinare via ogni cosa. È il flusso di un pensiero che definisce il mondo mediante la propria postura laterale e straniante. Ma è attraverso le ingenuità e le stranezze di Liborio che emerge soprattutto una storia luminosa e struggente, dove l’amore e il dolore sembrano definirsi soprattutto nei termini del fraintendimento e dell’incomprensione. La storia di un uomo che cerca e definisce il proprio posto nel mondo, ma sempre in ritardo (o in anticipo) sui tempi degli altri uomini.

Seguendo l’intricato e travolgente flusso di coscienza dei pensieri di Bonfiglio Liborio non assistiamo soltanto al dispiegarsi della vita del protagonista. Ciò che viene messe in risalto – attraverso lo schermo deformato della memoria – sono le turbolenze della storia italiana dell’ultimo secolo. Osserviamo così, con distacco e attenzione, le ultime stoccate roboanti del fascismo, le miserie della guerra, le aporie della società industriale, la fine della Prima Repubblica e la “discesa in campo” di Berlusconi, fino ai primi segnali di quella modernità che ci sommerge e ci trascina via.

Il romanzo di Rapino è concepito nella sua essenza come uno scritto di bilancio. Un uomo, arrivato al termine del suo viaggio esistenziale, concede le sue memorie alla pagina scritta, cercando – attraverso la traccia della scrittura – di trovargli un significato. Uno qualunque, tra i tanti della vita. Ma attraverso questa ricerca si apre davanti alla nostra lettura un resoconto che riflette soprattutto sulle contraddizioni del nostro presente e della nostra storia recente. D’altronde la grande letteratura è abitata da matti (basta pensare al Don Chisciotte, all’Amleto o ad alcuni memorabili personaggi pirandelliani) che con il loro sguardo deviato cercano di aprire degli squarci nella realtà. Per offrirci nuove prospettive sul mondo, per ricordarci che il confine tra la normalità e la follia, tra le verità e l’inganno non è che una costruzione arbitraria. Esattamente come la vita, e il racconto che facciamo di essa.

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