Un’ondata di ottimismo sul clima ha preso piede dopo il summit organizzato da Biden. Ma le promesse fatte non saranno troppo ambiziose? Finalmente, dopo il quadriennio di negazionismo trumpiano, il nuovo presidente americano ha intenzioni serie per tentare di contenere il riscaldamento del pianeta. Anche i Paesi più scettici hanno fatto promesse importanti.
La Cina – numero uno al mondo per emissioni di CO2 – ha raggiunto un accordo con gli Stati Uniti per affrontare la crisi climatica, che “deve essere trattata con la serietà e l’urgenza necessarie”, come recita un comunicato stampa congiunto fra le due nazioni. Anche la Russia, nonostante i difficili rapporti con Trump, ha dichiarato di voler ridurre drasticamente le emissioni nei prossimi trent’anni, in particolare di metano, a cui il presidente Putin si è mostrato attento. Altri Paesi, fra cui Giappone, Canada e Unione Europea, hanno promesso riduzioni dal 40 al 55% entro il 2030. Anche l’Italia, con il nuovo governo, si pone obiettivi ambiziosi.
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Si tratta di uno scenario inedito, incredibilmente positivo. Persino David Wallace-Wells, uno dei maggiori attivisti per il clima al mondo, si è detto speranzoso circa l’impegno verso la carbon neutrality.
Nel saggio La Terra inabitabile, pubblicato da Mondadori nel 2020, Wallace-Wells delineava un futuro spaventoso. Il cambiamento climatico avrebbe portato alla scomparsa totale del genere umano. Oggi, invece, le prospettive appaiono più rosee: ci vorrà tempo e impegno, ha dichiarato Wallace-Wells, ma le cose stanno cambiando. I capi di Stato e i politici che qualche anno fa negavano compiaciuti il cambiamento climatico hanno invertito la rotta. Sicuramente ha aiutato la pressione dell’opinione pubblica, e un senso generalizzato di consapevolezza che il surriscaldamento della Terra non può più essere preso sottogamba.
Ma quanto è giustificato questo ottimismo? Le promesse fatte al summit sul clima non saranno un po’ troppo ambiziose?
Lo abbiamo chiesto a due climatologi, uno italiano, uno americano. Da un lato Antonello Pasini, fisico climatologo del Consiglio Nazionale delle Ricerche e docente di fisica del clima all’università Roma Tre. Dall’altro Peter Vail Marsters, ricercatore presso il Center on Global Energy Policy della Columbia University a New York, autore di numerosi studi sulla transizione verso le energie rinnovabili. Il lavoro da fare è tanto, hanno detto. a situazione politica complica le cose, ma anche loro, come Wallace-Wells, si sono detti fiduciosi.
Per quanto riguarda il ruolo degli Stati Uniti, Pasini ha espresso soddisfazione di fronte ai risultati del summit: «[L’incontro] è stato importante da un punto di vista di principio. Biden ha voluto far capire che l’America è tornata, e con lui al comando la situazione probabilmente cambierà in maniera sostanziale». In effetti, Biden ha piani ambiziosi. Forse troppo ambiziosi? Sicuramente di difficile attuazione, conferma Pasini. Ma c’è un elemento che spesso passa inosservato. «I capitani d’industria hanno capito che il petrolio e il gas naturale non sono la strada del futuro. È un’altra la strada del futuro», dice Pasini. In effetti, nonostante Trump, le emissioni di CO2 degli Stati Uniti si sono stabilizzate recentemente. Nel 2020 sono diminuite dell’11% – complici, sicuramente, i mesi di stallo dovuti alla pandemia.
Gli obiettivi del nuovo governo hanno colpito anche Marsters. «Abbiamo uno spiraglio di opportunità che non si presenta spesso. Il governo americano non è mai stato così attento al clima come oggi. Il basso costo delle energie rinnovabili, insieme ai trend economici, danno una grossa spinta verso il raggiungimento delle emissioni zero».
Marsters, però, mette in guardia circa la situazione polarizzata della politica americana. A suo dire, le divisioni in Congresso mettono a serio rischio la realizzabilità degli obiettivi. «C’è una bella differenza tra ciò che è tecnicamente possibile e ciò che è politicamente possibile», afferma. «Teoricamente, possiamo arrivare all’obiettivo senza impattare radicalmente le abitudini dei cittadini, e senza grande dispendio economico. La riduzione dell’inquinamento avrebbe solamente risvolti economici positivi». Manca però la certezza di poter approvare delle leggi che sostengano le iniziative dell’amministrazione Biden: «Le azioni esecutive non sono sufficienti. Per cambiare le cose sul serio, ci vorrebbe una legge approvata dal Congresso. Ma una grossa fetta del Senato non crede al cambiamento climatico, e sicuramente ostacolerà le ambizioni del governo».
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Sull’Europa, i due esperti sembrano non essere pienamente d’accordo. «Penso che nel contesto europeo ci saranno degli elementi di tensione,» dice Marsters. «Ad esempio, se ogni nazione impone determinate regole sulle emissioni, come ci si comporterà al confine? Come verrà gestito il commercio internazionale, tenendo conto di queste limitazioni?». Su questo punto non c’è ancora chiarezza, secondo il ricercatore. I leaders europei prima o poi dovranno portare i nodi al pettine.
Pasini ha più fiducia nell’amministrazione europea, e nei vari accordi bilaterali che i diversi Stati potranno stipulare tra loro, a latere rispetto alle conferenze mondiali – la prossima, la COP26 organizzata dall’ONU, si terrà a inizio novembre a Glasgow. «Il clima, come l’economia, è un sistema complesso e dinamico. I due spesso si intersecano», dice Pasini. «Bisogna compiere azioni comuni che facciano del bene su entrambi i fronti. Penso all’Italia: possiamo andare a recuperare un terreno degradato sulla sponda sud del Mediterraneo, da cui arrivano nove migranti su dieci. Se lo facciamo tornare verde, il verde non solo assorbirà l’anidride carbonica, agendo positivamente sul clima, ma potrà anche essere destinato al pascolo o all’agricoltura, e contribuirà al sostentamento economico delle popolazioni locali».
Secondo Pasini, per risolvere i problemi, climatici ed economici, bisogna affrontarli insieme, in parallelo, come richiede un sistema complesso.
Su un punto i due esperti si trovano indiscutibilmente d’accordo: il sistema mondiale ha subìto un cambiamento fondamentale. Per quanto difficili da attuare, il fatto che esistano dei piani per affrontare il cambiamento climatico è già un enorme passo avanti. «Ogni nuova tonnellata di CO2 causa danni drasticamente maggiori rispetto alla precedente. È una curva esponenziale e cumulativa», afferma Marsters. «Per questo, il fatto che gli Stati Uniti abbiano fatto una promessa così ambiziosa è positivo. L’ambizione crea un sistema di responsabilizzazione collettiva. Se un Paese punta in alto, anche gli altri si sentono in dovere di farlo. Questo è il punto più importante».
Gli fa eco Pasini: «Siamo in un’economia globalizzata e, quando si innescano dei processi a cascata, il sistema può subire un cambiamento di stato», afferma. «L’Europa, la Cina, gli Stati Uniti stanno tutti puntando sul mercato delle rinnovabili. Per gli altri Paesi diventerebbe economicamente controproducente remare contro, soprattutto nel momento in cui si stipula un accordo internazionale».
Responsabilizzazione collettiva, quindi, ma anche vantaggio economico. Il fardello maggiore, adesso, è l’azione concreta. «Abbiamo poco tempo, e una quantità incredibile di lavoro da fare», conclude Marsters. E per Pasini, l’importante è che si ponga l’attenzione sull’impatto quantitativo dei provvedimenti. Devono aiutare concretamente a raggiungere determinati numeri.
Dunque, appuntamento a Glasgow a novembre. Sarà la prova del nove per verificare se questi progetti hanno dato i primi frutti sperati.
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