C’era un Poeta, più o meno negli stessi anni in cui Antonio Ligabue meravigliava l’Italia con le sue tele, che di sé celebrava “la diversità che mi fece stupendo e colorò di tinte disperate una vita non mia”. Dopo i fasti de Il vento fa il suo giro e L’uomo che verrà, Giorgio Diritti, bolognese come Pier Paolo Pasolini, in Volevo nascondermi (prodotto da Rai Cinema e Palomar, miglior film della 66ma edizione del premio più prestigioso del cinema italiano) celebra la splendida diversità di un emarginato senza famiglia, senza patria e senza amore, che si conosce e si riscatta attraverso l’arte. E si conquista l’immortalità. Film biografico, lirico, inghirlandato da una lucidissima tensione morale. Tributo ad Antonio Costa, consegnatosi alla storia come Antonio Ligabue, grazie a uno strepitoso Elio Germano che, con una commovente immersione stanislavskiana nel personaggio, fa incetta di premi, porta a casa l’Orso d’argento per il miglior attore al Festival di Berlino 2020 e il David di Donatello 2021 come miglior attore protagonista.
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Il film inizia facendoci assistere alle umiliazioni subite in Svizzera dal giovane Toni, rigettato come un corpo estraneo sulle rive del Po, dove inselvatichito ed errante incontra Renato Marino Mazzacurati, che ha la felice intuizione di iniziarlo alla pittura e alla scultura. Passando, poi, per le strettoie dei manicomi, legato e smanioso di sfrecciare nella campagna emiliana in motocicletta dove rincorre la dolce chimera dell’amata Cesarina. Per arrivare infine alla gratificazione nazionale dei reportage televisivi e di una monografia dedicatagli a Roma. Il filo biografico della vita dell’artista si srotola per intero davanti a noi: Diritti ci conduce per mano dentro travagli, tormenti e splendori di uno dei più visionari artisti del secolo scorso.
E lo fa capitalizzando al meglio la lezione del suo padre artistico, Ermanno Olmi, facendosi anche cantore di un mondo contadino, mai oleografico né stilizzato, ma sempre aderente al contesto storico che lo produce (fascista o postbellico che sia) dentro cui esplode l’erranza geo-sentimentale del protagonista. La cinepresa, così, cattura l’anima macchiaiola della provincia emiliana, il palcoscenico ideale per accompagnare con curiosità mai morbosa la difficile integrazione tra un individuo e la comunità (a lui) straniera in cui viene catapultato.
Dentro un caleidoscopio di grandangoli, campi lunghi, primi piani e riprese a mano, Diritti (al secondo David di Donatello su quattro candidature) cesella l’anima chiaroscura di Ligabue senza scadere mai in un tono pietistico che imbratta oggi troppi biopic, evitando cliché da libro Cuore del prodigio da osannare ciecamente perché inarrivabile e incomprensibile nel suo misto di genio e sregolatezza. Merito della sceneggiatura, sorvegliatissima, estremamente diegetica, che non straripa mai nel dramma elegiaco, ma spezza e ricompone continuamente il filo biografico, intrufolandosi nell’interiorità del protagonista per arrivare a intercettare il mistero di quei frammenti di vissuto che su tela diventano subito schegge policrome d’immensità.
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La pellicola ammalia nel contrasto tra esterni cromaticamente multicolori e sgargianti, e interni anneriti e ingrigiti, correlativo visivo dell’angoscia interiore di Ligabue. Per cui l’esplosione lucente di forme vivide e verdeggianti che illuminano la pianura emiliana grazie alla fotografia di Matteo Cocco (premiato anche lui con la statuetta più prestigiosa del nostro cinema),si travasa poi negli stessi dipinti stessi di Ligabue, suo adorante e fedele scrutatore.
Così tra splendide tigri ruggenti, leoni e cavalli rampanti, scimmioni e pavoni, galline e tacchini, sfilano davanti a noi incantate visioni “vangoghiane” che celebrano quel mondo che, a differenza di quello umano, lo ha accolto subito senza pregiudizi. L’arte diventa un rifugio e uno sfogo. Uno spazio di catarsi e d’identità. L’unico mezzo per esprimersi per un uomo catapultato in una comunità sconosciuta, bersagliato dai propri fantasmi e marchiato senza scampo dal pregiudizio.
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A suggellare il film c’è, come detto, la prova maiuscola di Elio Germano. Grazie al trucco prostetico di Signoretti, Tamburini e Desiato, scivola senza remore nella pelle del personaggio, restituendocelo in tutta la sua carica vitale, nella sua fisicità smaniosa, schizoide e caracollante. Mite con i miti, donne e bambini, e iroso e ribelle contro un mondo esterno costantemente visto come una minaccia. Prestazione camaleontica che schiva brillantemente facili clownismi, degna di quella del primo Ligabue della tv, interpretato da Flavio Bucci nello sceneggiato di Salvatore Nocita creato dalla penna di Cesare Zavattini.
Ligabue nel film dipinge pochissimo, scolpisce ancor meno, perché ciò che interessa al regista è il prima e il dopo l’arte. Il groviglio ispiratore, il tormento liberatorio che preesiste e sussiste alla creazione, la diversità che rende stupendi. Germano macina chilometri, sbuffa. Smania. Scappa. Urla e impreca. Solfeggia una κοινὴ trilingue di tedesco, italiano ed emiliano. Si mutila. Spacca le sue opere. Scorrazza in moto. Contempla cieli. Abbraccia gli animali, li accarezza, dedica a loro tutto il suo genio.
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Volevo nascondermi è un film necessario, poetico e irripetibile. Una splendida lettera d’amore a tutti gli irregolari, gli indesiderati, gli scartati della nostra epoca che vogliono o devono nascondersi. E che invece possono riconoscersi, ora, nel travaglio di un reietto diventato ex nihilo potens, assecondando testardamente la sua Sehnsucht contro lo sprezzo generale, con cui si autorisarcisce da una destino impietoso e dall’abbandono emotivo cui era condannato sin dalla nascita. L’arte salva dalla miseria, puntella gli sbandamenti della mente e spalanca le porte dell’immortalità. Questo Ligabue lo sa, e lo grida ogni volta che può: «Lo so che sono brutto… lo vedo. Ma ricordatevi che sono un’artista. E degli artisti ci si ricorda nel tempo… Gli fanno le statue!».
E ha avuto ragione lui.
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