È tornata la guerra in Palestina. Due notti fa le forze armate israeliane hanno annunciato in un tweet l’invio di truppe nella Striscia di Gaza. Nelle ore successive la notizia è stata parzialmente smentita, ma i soldati dello Stato ebraico sono stati ammassati al confine mentre proseguivano i bombardamenti. L’attacco alla Striscia è solo l’ultimo episodio di una spirale di violenza che prosegue da settimane. L’ennesimo picco di tensione nell’infinito conflitto israelo-palestinese.
Da settant’anni lo scontro tra israeliani e palestinesi si riaccende periodicamente. L’oggetto del contendere in queste settimane è Sheikh Jarrah, uno degli storici quartieri arabi di Gerusalemme. Qui le autorità israeliane hanno iniziato le procedure di sfratto per decine di famiglie palestinesi. Le loro case, sostengono i giudici, appartenevano a ebrei prima del 1948, e devono tornare ai legittimi proprietari. Una scusa per rendere etnicamente omogenea la città, dicono gli abitanti della zona, che lamentano come lo stesso principio non valga per le zone a maggioranza ebraica in passato abitate da arabi. Da questo quartiere sono iniziate le violenze che hanno portato all’escalation di questi giorni.
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«Durante il Ramadan ragazze e ragazzi palestinesi sono accorsi qua per difendere le famiglie minacciate dagli sfratti. Io ho partecipato alle proteste dall’inizio, e le scene a cui ho assistito fanno rabbrividire. Ho visto la polizia picchiare e arrestare manifestanti pacifici; coloni aggredire palestinesi di fronte alle forze dell’ordine che non muovono un muscolo. L’altro giorno per arrestare un manifestante la polizia ha fatto irruzione in una casa del quartiere usando fumogeni e lacrimogeni. Gli estremisti ebraici si sentono immuni. Se uno di loro lancia una pietra nessun agente interviene, mentre a un palestinese basta una parola fuori posto per finire agli arresti». A dirci tutto questo è Shady Giorgio, un giovane italo-palestinese nato e cresciuto a Gerusalemme. Sul suo profilo Instagram da giorni documenta quanto avviene in città.
«È vero che queste case un tempo appartenevano a ebrei, e nel 1948 i palestinesi sono stati portati qua da Stati Uniti e Giordania» prosegue Shady. «Ma molte, molte più sono le abitazioni arabe sgomberate nei decenni per essere assegnate a coloni, e nessuno pensa neanche lontanamente di restituirle. In più, la proprietà delle case è stata acquistata nel tempo da agenzie immobiliari e ONG vicine alla destra israeliana. Se avverrà lo sfratto queste abitazioni non torneranno agli eredi degli antichi proprietari, ma a coloni».
Raggiungiamo Shady al telefono mentre partecipa al presidio in difesa di Sheikh Jarrah, e l’atmosfera è tesa. «Ci arrivano notizie di coloni armati che stanno convergendo su Gerusalemme Est. Molti hanno paura, chi partecipa a questi presidi è spesso giovanissimo e i genitori non si fidano più».
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Da Gerusalemme la violenza si è spostata in altri centri del Paese, anche laddove palestinesi ed ebrei hanno convissuto finora in relativa pace. Gli episodi più gravi si sono registrati a Haifa e Tiberiade, dove ebrei estremisti sono scesi in strada in cerca di negozi e abitazioni palestinesi da incendiare. Sempre a Haifa un corteo di destra ha scandito «morte agli arabi» e aggredito un palestinese, mentre altri arabi sono stati accoltellati a Gerusalemme e Bat Yam. Le parti si sono invertite a Lod, dove è stata data alle fiamme una sinagoga, e ad Acri, dove un ebreo è stato gravemente ferito da un gruppo di palestinesi.
«Alla radio ho definito “pogrom” le violenze dei coloni. Mia madre, polacca d’origine, si è risentita. Ma quando le ho mostrato i video delle aggressioni mi ha dato ragione. Quanto fatto da coloni e fanatici in diverse città d’Israele non può essere chiamato in altro modo». A dirci queste parole è Alessandro, un giovane italo-israeliano di fede ebraica. Anche lui partecipa con Shady ai presidi contro l’occupazione e gli sfratti, e tiene a raccontarci il suo punto di vista. «Per i fanatici il primo nemico è l’arabo, ma il secondo siamo noi ebrei contrari alle politiche espansionistiche. Ci accusano di essere traditori, di collaborare col nemico. Ieri sera [12 maggio, N.d.R] ho partecipato a un sit-in di giovani israeliani che avversano l’intervento militare a Gaza. Prima siamo stati raggiunti da bande di fascisti ebrei, che ci hanno minacciato coi coltelli e con lo spray al peperoncino, e poi siamo stati caricati dalla polizia con cani, cavalli e getti d’acqua. Tanta violenza non si era ancora vista contro non-palestinesi».
Shady ci conferma le preoccupazioni dell’amico. «Mia nonna vive a Haifa, e ho paura che i coloni possano entrare a casa sua e farle del male».
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Nel contesto della tensione a Gerusalemme e in Cisgiordania si è inserito anche Hamas, il partito d’ispirazione religiosa al potere nella Striscia di Gaza. Assieme agli sfratti, infatti, l’altra ferita aperta riguarda la spianata delle moschee. Nei giorni del Ramadan centinaia di palestinesi sono accorsi di fronte ai luoghi sacri dando vita a proteste subito represse dalla polizia. Da lì è partita una spirale di provocazioni da ambo le parti: su TikTok alcuni giovani palestinesi hanno pubblicato video in cui colpiscono al viso rabbini nelle sinagoghe. I gruppi della destra israeliana, in risposta, hanno organizzato una marcia nei quartieri arabi della città. Il Corteo in un primo tempo è stato autorizzato dalle autorità, e poi spostato per evitare di inasprire ulteriormente gli animi.
Enorme impatto ha avuto l’ingresso della polizia israeliana nella moschea di al-Aqsa, uno dei luoghi più sacri per i musulmani dell’area, e i video della folla che balla di fronte al muro del pianto mentre alcuni alberi nella spianata delle moschee bruciavano. Solo festeggiamenti per il Jerusalem Day, sostengono alcuni. Una provocazione gratuita nei confronti della popolazione palestinese, secondo altri.
Il dieci di maggio le brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, hanno annunciato un ultimatum: se la polizia israeliana non si fosse ritirata dalla spianata delle moschee entro la notte, dalla Striscia di Gaza sarebbero partiti razzi contro Israele. Una minaccia concretizzata il giorno stesso, quando allo scadere del termine dato dal movimento islamico le sirene antiaeree di Tel Aviv sono tornate a suonare. È con mosse come questa che Hamas punta ad affermarsi come punto di riferimento dei palestinesi in tutta l’area, non solo nella Striscia, contendendo la storica egemonia del partito laico al-Fatah.
La reazione israeliana non si è fatta attendere. Da quattro giorni la Striscia di Gaza è oggetto di violenti bombardamenti dall’aria e da terra. Il bilancio finora è di centotrentasei civili palestinesi uccisi, di cui trentanove bambini, mentre sette sono le vittime israeliane. Hamas ha chiesto a Tel Aviv, tramite intermediari egiziani, un cessate il fuoco. Richiesta respinta dal primo ministro Netanyahu. «Gli faremo pagare un prezzo molto alto» ha dichiarato il premier.
«Gli israeliani nati qua spesso non hanno gli strumenti per capire l’occupazione. Nelle scuole si insegna che prima dello Stato ebraico la Palestina era una terra vuota, desertica. In Israele c’è la leva obbligatoria, e nell’anno di servizio militare si vive immersi in una propaganda iper-patriottica» ci dice Shady. «I più fanatici, poi, sono i coloni nati all’estero. Molti vengono qua dagli USA, dalla Francia, dalla Germania, e hanno un’immagine idealizzata di Israele. Sentono di avere una missione divina, vogliono liberare la terra assegnata loro dalla Bibbia. Sono una minoranza tra i coloni, ma di certo i più estremi».
Alessandro si commuove mentre lo intervistiamo. «Questo non è il mio ebraismo. Chi ruba le case altrui e aggredisce arabi in quanto tali non ha niente a che fare con me. Ma noi giovani israeliani contro l’occupazione ci siamo, esistiamo. Abbiamo preso posizione e continueremo a farlo».
«Con Gerusalemme è amore e odio» ci dice Shady. «Per un palestinese significa vivere nel cuore dell’apartheid, sentirsi sempre un cittadino a metà anche quando – come me – hai la cittadinanza». Alessandro ci conferma la stessa impressione. «Mi sembra di vivere nella città più di destra del mondo».
È sul futuro più che su tutto il resto che entrambi esprimono la loro paura. «Vivo col sogno di uno Stato confederale e pacifico» spiega Alessandro. «La soluzione dei due Stati è morta tempo fa. Riconsegnare la Cisgiordania alla Palestina significa far ritirare un milione di coloni, ma questo è politicamente improponibile. Quando quindici anni fa trecento israeliani dovettero lasciare Gaza, il dibattito divise il Paese».
Gli chiediamo se è ottimista. «No» ci risponde. «Forse la pace non ci sarà mai. Stiamo andando verso uno scontro etnico».
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