Nei processi successivi alle guerre di Jugoslavia i giudici della corte del Tribunale Penale Internazionale si ritrovarono in acque incerte. Era loro un compito arduo: decidere il limite di un intervento militare in senso stretto.
Questo vuol dire che i giudici si ritrovarono a fare una cosa che, bene o male, si è sempre ritrovata nella vaghezza più che in regole giuridiche dure; e anche quando queste venivano determinate, avevano un campo di applicazione abbastanza vasto da poter far decadere qualsiasi accusa.
Bisognava quindi decidere il limite “umano” di un intervento militare, per poter determinare la legittimità e la gravità dei crimini di cui le truppe serbe e quelle croate si erano macchiate.
Il principio stabilitosi fu quello di duecento metri. Ovvero, se un attacco, un bombardamento, avviene in un centro densamente abitato, questo non può colpire obiettivi civili, neanche per errore, al di fuori dei duecento metri di area da un obiettivo militare.
Può sembrare una regola arbitraria, lo è in effetti, ma è dimostrazione di una certa forma mentis dell’epoca precedente e la tendenza evolutiva del diritto internazionale penale (una disciplina relativamente recente nella storia umana della guerra) nella protezione dei civili nei conflitti.
La ratio militare quindi, in questa visione, deve essere bilanciata da una cura nell’evitare che il costo del conflitto sia pagata dalla popolazione inerme. Coloro che non possono combattere; coloro che, magari anche se in supporto a forze nemiche, non hanno capacità bellica.
Dalla teoria alla pratica di acqua ne passa. Molti di quei generali che i giornali descrivevano come “macellai”, o altro, sono stati assolti.
La realtà dei fatti modera la teoria giuridica. Modera il concetto di intervento, lo cala nelle sue declinazioni pratiche.
Una di queste declinazione è l’intervento preventivo. Se uno Stato ha ragioni concrete di credere che verrà presto lanciato un attacco che potrebbe mettere in pericolo la sua popolazione, è legittimo per quello Stato attaccare preventivamente.
Questa fu la ratio utilizzata dal governo Bush e dalla più larga comunità internazionale per giustificare l’attacco all’Iraq in seguito agli attentati alle Torri Gemelle.
Tutto ciò per arrivare al punto.
Il conflitto divampato per l’ennesima volta in Israele presenta ci presenta non solo dilemmi morali estremamente complessi e non semplificabili, ma anche una profonda riflessione sullo stato del concetto di “non intervento” sviluppatosi dal XX secolo ad oggi.
La difficoltà, l’estrema complessità di questa diffida ormai secolare può essere solo spiegata a mo’ di esempio.
Il tuo vicino di casa lancia dei missili verso casa tua, lo fa regolarmente. Il tuo vicino di casa è un integralista che tiene ostaggio un’altra famiglia, sempre tua vicina, che gli vive accanto insomma, minacciandola direttamente di ritorsioni.
Se vuoi proteggerti dai primi, colpirai anche i secondi, gli innocenti.
Se invece non lo fai, se stai fermo, sei rimani inerme, rischi che quelli che all’inizio erano solo pochi razzi verso la tua popolazione civile, anche questa inerme si moltiplichino all’infinito.
Perché alla fine coloro che ti stanno attaccando a malapena ti vedono come essere umano.
Questo è quello che è possibile vedere in onda, dal vivo su qualunque social.
La polizia di Israele tenta di sgombrare una protesta riguardo lo sfratto di alcune famiglie palestinesi a Gerusalemme. Lo fa in una delle settimane più sante e più sacre per l’Islam.
Continuano i tafferugli e si inaspriscono, la reazione della polizia si fa più pesante, iniziano le violenze per strada. Volano i primi missili dalla Striscia.
Israele bombarda una palazzina piena di civili da cui sono partiti alcuni missili. Hamas si fa scudo con le famiglie, i bambini, per proteggere i propri terroristi. Il bombardamento ha quindici minuti di preavviso.
Si piangono i morti.
Questi sopra descritti sono solo due semplici tasselli di un arazzo che è stato filato con l’odio, in cui a pagare “la libbra di carne” in questo momento sono i civili palestinesi, innocenti. Incastrati nel fuoco incrociato di una lotta etnica, religiosa che ha ammazzato qualunque loro futuro o prospettiva.
Una lotta che ormai tratta non più la convivenza, bensì la sopravvivenza di una delle due fazioni ormai inconciliabili. Inesorabilmente divise per gli errori storici dell’uno e dell’altro.
Queste due popolazioni pagheranno tutti gli errori delle loro leadership. Quella araba prima, con le sue colpe: una popolazione impoverita, ignorante, nessun diritto alla autodeterminazione, isolamento diplomatico completo e una diaspora di milioni di persone.
E quella ebraica dopo, che lentamente vedrà se stessa e il suo popolo trasformarsi nell’ennesimo regime autoritario parafascista mediorientale. La peggiore delle punizioni.
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